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Il pentito rivela: «Dalla Chiesa ucciso dal boss Alvaro»

REGGIO CALABRIA Gli omicidi commessi, quelli progettati, quelli eccellenti, come il delitto Dalla Chiesa, per cui gli Alvaro non solo mai stati neanche sospettati. È un breviario di sangue – versato…

Pubblicato il: 14/03/2018 – 13:27
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Il pentito rivela: «Dalla Chiesa ucciso dal boss Alvaro»

REGGIO CALABRIA Gli omicidi commessi, quelli progettati, quelli eccellenti, come il delitto Dalla Chiesa, per cui gli Alvaro non solo mai stati neanche sospettati. È un breviario di sangue – versato e da versare – quello che il pentito Simone Canale ha messo a disposizione degli inquirenti, che da quasi due anni passano al vaglio le sue dichiarazioni.

‘NDRANGHETISTA PER SCELTA Originario del Biellese, una famiglia rotta alle spalle e una storia di abusi che lo hanno portato a vivere in strada, dopo una carriera di violenza e piccoli crimini, Canale ha trovato “casa” nella ‘ndrangheta. Agganciato dai Raso e da loro affiliato al Nord dove i clan della Piana da tempo hanno messo radici, in seguito preso sotto la propria ala protettrice da Nino Penna, uomo dei boss Cosimo e Antonio Alvaro “Pelliccia”, Simone Canale in carcere è stato messo al corrente di molti segreti. «Tutto ciò che io so non è perché ricevevo confidenze dagli ‘ndranghetisti. Voglio che sia chiaro che tra ‘ndranghetisti non esiste “fare una confidenza”. Gli ‘ndranghetisti si “aggiornano fra di loro” perché fanno parte dell’Onorata società. L’infamità – spiega – non è ammessa nella ‘ndrangheta, Non si può parlare di fatti di reato della mafia a chi non è affiliato, ma tra ‘ndranghetisti è obbligo passare le notizie».

IL FUTURO GIÀ SCRITTO DI SINOPOLI Una legge che – hanno svelato le inchieste e confermato le sentenze – in realtà vale solo per i ranghi militari dell’organizzazione, tenuti dalla direzione strategica e dai vertici all’oscuro di strategie e segreti, ma che comunque ha permesso a Canale di sapere tanto. «Ecco perché so cosa è successo, cosa sarebbe dovuto succedere a Sinopoli che è terra degli Alvaro», dice al pm Giulia Pantano che lo interroga. E le sue parole hanno già in parte trovato conferma. È stato lui a rivelare la presenza delle armi nascoste nel cimitero di Sinopoli e rinvenute dagli investigatori nel dicembre del 2015.

L’ARSENALE Murati in un loculo, all’interno di una cappella di famiglia, gli uomini della Mobile hanno trovato bazooka, fucili a canne mozze, doppiette, pistole e persino un barattolo pieno di «sostanza gelatinosa, detonatori elettrici e una miccia a lenta combustione». Un arsenale, pronto per azioni di fuoco che al pentito erano state anche anticipate. Del resto, alcune avrebbero dovuto essere firmate proprio da lui. «Io – racconta ai magistrati – avrei dovuto assassinare omissis, l’ex Sindaco di Sinopoli Luppino Domenico e Gianluca che era il giovane che aveva tradito Penna Antonino».

SENTENZA DI MORTE PER LUPPINO La morte dell’ex sindaco – rivela – è stata decisa «perché lui in passato aveva denunciato». Testimone di giustizia, direttore della cooperativa Giovani in vita, che su terreni confiscati ai clan prova a costruire un’alternativa di vita anche per giovani ex detenuti, Luppino – aggiunge Canale in occasione di un altro interrogatorio – «veniva ritenuto dagli Alvaro, ramo “russi -mattunari (che comprende i “pallunari”, “i merli” e i “Pecchia”) un rompiscatole, perché occupava con la cooperativa i terreni confiscati o prossimi alla confisca degli Alvaro. Penna chiamava i fondi i “livari”. In detti terreni ritengo ci siano cose illecite, tipo armi». Ecco perchè gli Alvaro avevano deciso di eliminare Luppino. Tutto era stato già programmato. L’ex sindaco avrebbe dovuto essere eliminato «in modo eclatante, in una piazza del paese con il kalashinikov oppure con una bomba. Arrivato a Sinopoli, avrei dovuto prendere contatti con Penna Carmine, fratello di Antonino, e mettermi al seguito di Bin Laden (ndr. Carmine Alvaro)».

ANIMA E CORPO ALL’ORGANIZZAZIONE Ma il clan aveva ordinato a Canale di uccidere anche il suo stesso fratello «perché confidente, tagliandogli la testa e lasciandola davanti ad una caserma». Del resto – ammette, non senza lasciar trasparire imbarazzo – «io avevo già assassinato così, quindi ero ritenuto valente». In più si era autoaccusato di un crimine “infame”, una violenza sessuale ai danni di una prostituta, scagionando Antonio Penna, che di quel delitto era stato individuato come il responsabile. «Avevo dato corpo e anima all’organizzazione», confessa. Ed anche per questo è stato messo a conoscenza anche di segreti delicati della storia del clan, come la presunta partecipazione di Nicola Alvaro all’omicidio del generale Dalla Chiesa.

L’OMICIDIO DALLA CHIESA Di quel delitto, sentenze definitive hanno già individuato mandanti ed esecutori. Due pentiti che hanno partecipato all’azione di fuoco ne hanno parlato in dettaglio e mai hanno svelato la presenza di calabresi nel commando. Ma da Penna, che nel clan è stato il suo mentore, Canale è venuto a conoscenza di altri dettagli. «Penna mi ha parlato di Nicola Alvaro, vecchio capobastone degli Alvaro-Coda Longa che fu l’esecutore materiale dell’omicidio del generale Dalla Chiesa. Ricordo che disse “neanche il testimone è riuscito a incastrarlo. Basta che guardano la data dell’assassinio. Come fa uno di San Procopio a non andare alla festa di Polsi?”». Secondo quanto riferito dal pentito, Alvaro avrebbe usato come copertura la tradizionale festa della Madonna della Montagna, notorio appuntamento per tutti i maggiori esponenti delle famiglie di ‘ndrangheta, ma negli stessi giorni si sarebbe recato a Palermo per commettere l’omicidio. «Era accompagnato da un altro soggetto, a bordo di un motociclo e Alvaro sparò con un mitra».

PUNTI OSCURI Particolari fino ad oggi mai emersi. Ma che sull’omicidio Dalla Chiesa ci sia ancora molto da scoprire lo ha detto anche il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che alla commissione parlamentare ha svelato che «l’ordine di eliminare Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma. Dal deputato Francesco Cosentino», ex parlamentare della Democrazia cristiana, vicinissimo ad Andreotti, massone e piduista. Un nome che potrebbe trovare eco fra quegli «agganci istituzionale» del clan Alvaro, evocati dal pentito Canale, ma su cui ogni dettaglio è stato al momento omissato.

A DISPOSIZIONE «Mi disse ancora Penna – mette a verbale Canale – “che ti pare, quando Totò Riina aveva bisogno di qualcosa, chi chiamava?”». Circostanze già emerse in diverse inchieste, che tuttavia – fino ad oggi – mai hanno rivelato uno scambio di killer fra la Piana e Palermo. Di certo però, Nicola Alvaro è un uomo di peso nella ‘ndrangheta. Forse – sembra lasciar intendere il pentito – anche per quell’omicidio. Una parabola che sembra ricordare quella del pentito Cosimo Villani, a 17 anni incaricato dell’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo, con cui la ‘ndrangheta ha firmato la propria partecipazione alla strategia degli attentati continentali, e per questo salito in fretta nelle gerarchie criminali. Le stesse che vedono Nicola Alvaro ai livelli più alti, sebbene i reati per cui è stato condannato non lo raccontino.

GALATEO DI ‘NDRANGHETA «Vito Lo Massimo (con me in carcere a Monza) – sottolinea Canale – mi ha aggiunto “sta dentro per reati stupidi rispetto a quello che lui è e rappresenta nella ndrangheta». Nell’organizzazione, Nicola Alvaro è un uomo da tutti rispettato. E lo stesso Canale ne ha avuto la prova. «L’ho conosciuto in un bar a Torino con Cambareri Franco che mi disse “questo è un pezzo da 90”, quindi mi venne descritto come un grosso personaggio della ndrangheta». U zoppu, questo il soprannome con cui Alvaro è conosciuto, «frequentava il Piemonte perché ad Ivrea c’era una propaggine capeggiata da Alvaro Domenico, titolare di una cooperativa o impresa di pulizie, che assume anche ex detenuti». Per questo, Canale – attivo per lo più nel Nord Italia – ha avuto modo di incontrarlo. «Al momento della presentazione feci “l’inchino” quale segno di rispetto mafioso». È quello che prevede il galateo di ‘ndrangheta per «un mammasantissima». E non era l’unico degli Alvaro ad avere un ruolo apicale. «Cosimo Alvaro detto Pelliccia, è massone. (Omissis) In pratica chi ha delle doti superiori alla “Santa” può essere massone».

L’OMICIDIO MOLÈ I verbali di Canale sono pesantemente omissati. Molte delle sue rivelazioni sono ancora coperte da segreto. Ma tanto trapela e se confermato potrebbe essere determinante per ricostruire pagine determinanti nella storia della ‘ndrangheta tutta. Come quella – ancora in larga parte sconosciuta – in cui si raccontano i veri motivi dell’omicidio di Rocco Molè. Giovane boss, fin troppo rampante per i Piromalli sotto la cui ala era cresciuto, Molè è stato ucciso dieci anni fa in un agguato che ha segnato la fine dell’alleanza fra il potente casato mafioso padrone dalla Piana di Gioia Tauro e la cosca che per anni gli ha fatto da costola operativa. Secondo quanto emerso in passato, ai Piromalli non avrebbero gradito il progressivo avvicinamento di Molè ai servizi, con i quali il potente casato mafioso pretendeva un rapporto esclusivo, ma a condannarlo – rivela Canale – è stata una storia di soldi e affari.

L’AFFAIRE ANNUNZIATA Molè – racconta Canale ai magistrati – è stato ucciso perchè «ha posto dei limiti all’espansione dell’imprenditore Alfonso Annunziata, uomo di Pino Piromalli». Ex straccivendolo divenuto grazie al clan il padrone di uno dei centri commerciali più grandi della Calabria e adesso per questo a processo per associazione mafiosa, Annunziata per i magistrati è in tutto e per tutto una creatura dei Piromalli, che per questo non avrebbero tollerato alcun tipo di ingerenze. E sarebbero stati disposti anche ad ordinare un omicidio per difendere il proprio business.

GLI ESECUTORI Ad eseguirlo – rivela Canale – sono stati «Massimo Bevilacqua detto ‘Giacchetta’, Luciano Macrì, Carmelo Bevilacqua detto ‘Occhiogrosso’ e Luciano Macrì detto ‘u Nigru”. Si tratta tutti di uomini di Pino Piromalli detto ‘lo sfregiato”, ora detenuto al Marassi». È lui, secondo il collaboratore, «il proprietario del fondo dove è stato edificato il centro commerciale ‘Annunziata’. È stato Antonio Macrì a raccontarmi in cella a Cremona di essere coinvolto nell’assassinio di Molé». Tutti dettagli che adesso toccherà alle indagini verificare ed eventualmente riscontrare, ma potrebbero aiutare a ricostruire uno snodo fondamentale nella storia della ‘ndrangheta tutta. Una storia che a Canale è stato concesso – quanto meno in parte – di conoscere e da cui ha voluto prendere le distanze, rivelandone i dettagli.

SECONDA POSSIBILITÀ «Ho fatto questa scelta perché ho vissuto di illeciti ed espedienti sin da minore. È una vita che compio reati. Ho avuto una vita familiare complicata. Soprattutto non ho avuto famiglia. Ho già trascorso in carcere 16 anni della mia vita; mi sono reso conto che entrare in una cosca come quella degli Alvaro avrebbe presto significato “morte” o comunque ancora carcere perché ero ormai una “pedina” loro e di Nino Penna, e circa l’efferatezza degli Alvaro credo di aver detto profusamente». Per questo, dice, «ho voluto darmi una seconda possibilità di vita dopo tanti errori, e sinceramente sono contento di essermi fidato delle Istituzioni. Spero per me sia l’inizio per aderire ai valori veri, perché ho solo voglia di vivere onestamente, fuori dal mondo della criminalità organizzata».

NON VOLEVO ESSERE UN KILLER Al suo pentimento, gli inquirenti credono. Anche perché è stato lui a svelare la sua carriera da affiliato, che le inchieste in cui è stato coinvolto non avevano neanche sfiorato. «So – afferma Canale – che dopo i gravissimi fatti di cui mi sono autoaccusato, potrei andare incontro di nuovo ad una detenzione carceraria, ma ho ritenuto che, per cambiare vita, dovessi necessariamente confessare tutto e prendere realmente il distacco dall’ambiente criminale. E poi non volevo diventare killer di professione per una cosca potente ed efferata come quella degli Alvaro».

Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it

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