La “legge” del boss nel feudo del Gebbione
REGGIO CALABRIA Anche dopo aver appiccato l’incendio in cui l’ha quasi uccisa, ha continuato a inveire contro di lei, aggredirla e minacciarla. Persino il pomeriggio precedente il suo arresto, il bos…

REGGIO CALABRIA Anche dopo aver appiccato l’incendio in cui l’ha quasi uccisa, ha continuato a inveire contro di lei, aggredirla e minacciarla. Persino il pomeriggio precedente il suo arresto, il boss Nino Labate ha avvicinato la quarantatreenne, che aveva occupato una baracca nei pressi del suo podere, per intimarle di andare via. «Siamo dovuti intervenire in fretta, perché Labate già aveva dimostrato di essere in grado di passare a vie di fatto» dice il procuratore vicario Gaetano Paci, che ha seguito da vicino l’indagine, coordinata dall’aggiunto Gerardo Dominijanni, all’esito della quale Labate è finito in manette con l’accusa di omicidio plurimo e incendio doloso, entrambi aggravati dalle modalità mafiose.
LA LEGGE DEL REGGENTE Sessantotto anni, reggente del suo clan e fratello di boss, Nino Labate si sentiva il padrone del Gebbione e per questo in diritto e in dovere di gestire il quartiere come se fosse una cosa sua. Non aveva gradito che una donna di origine rumena avesse scelto di passare l’inverno in una costruzione abbandonata nei pressi del suo podere e ha fatto di tutto per mandarla via. Persino appiccare il fuoco alla casa, mentre lei era dentro insieme ad altri connazionali, fra cui due bambini piccoli. «Non si è trattato di un gesto impulsivo o di follia, ma un’azione premeditata di chi si sente padrone del territorio» spiega Paci, che sottolinea «questo episodio dimostra come la ‘ndrangheta si nutra di un sistema di dominio del territorio che si esercita anche contro gli ultimi. Qui non c’erano in gioco equilibri criminali da contendere ad un altro clan o affari, semplicemente la presenza di quella donna risultava sgradita al boss». E per questo Labate non ha esitato a tentare di ucciderla.
LA MICCIA Ad accendere la miccia della violenza mafiosa, un sacchetto di immondizia abbandonato sul ciglio della strada nei pressi del podere del boss. «Mentre altri cittadini della zona si sono avvicinati alla donna per spiegarle come smaltire correttamente i rifiuti, a dimostrazione che la città di Reggio Calabria non è razzista» ci tiene a sottolineare Dominijanni, Labate si è precipitato fuori da casa con in mano un bastone e – sintetizza il capo della Mobile, Francesco Rattà – ha iniziato a picchiare la 43enne, inveendole contro e minacciando: «Vi brucio vivi». Poco dopo, si è diretto al vicino distributore di carburante, dove senza pagare – e adesso gli investigatori cercheranno di capire come mai – ha riempito una tanica di benzina, qualche ora dopo usata per dare fuoco all’abitazione della donna.
A RISCHIO VITA «La situazione – spiega Rattà – è diventata subito difficilissima per chi stava in casa, perché le fiamme, alimentate dalla benzina, hanno subito avvolto l’abitazione. Gli adulti più agili sono riusciti ad uscire fuori, in un cortile retrostante, ed a mettere in salvo i bambini. Ma la donna, più corpulenta degli altri, non è riuscita a scavalcare e solo grazie all’immediato intervento delle Volanti e dei Vigili del fuoco è riuscita a sfuggire all’incendio». Senza rimorso o scrupolo alcuno, Labate si era invece allontanato, senza pensare neanche per un momento alle possibili conseguenze del suo gesto. «Quello della spazzatura – chiarisce Rattà – era solo un pretesto, quegli occupanti davano fastidio al boss che ha deciso di mandarli via. È una questione di dominio del territorio e di prestigio».
GLI ELEMENTI CHE INCHIODANO IL BOSS A incastrare Labate sono state le immagini delle telecamere che hanno ripreso le fasi di preparazione dell’incendio, incluso il viaggio verso la colonnina e il ritorno a casa, con la tanica piena. Le dichiarazioni della donna, inizialmente terrorizzata, poi convinta dagli investigatori a raccontare le angherie ricevute hanno completato il quadro, che potrebbe essere ulteriormente rafforzato dalle scarpe e gli indumenti notati nei filmati e sequestrati stanotte durante la perquisizione.
TRASFERIMENTO CAUTELATIVO «Occorreva stabilire una posizione di dominio in un territorio in cui non si possono assumere atteggiamenti disfunzionali e dal suo punto di vista, Labate – conclude Paci – si è dimostrato coerente, amministrando la propria legge nel proprio feudo». Un’abusiva e feudale amministrazione di una legge di violenza e omertà che gli è valsa l’arresto. Ma ugualmente si è deciso di trasferire la donna in una comunità protetta, per evitare che subisca – ancora – le angherie del clan.
Alessia Candito
a.candito@corrierecal.it