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«Il (fondamentale) ruolo dei cattolici in politica»

L’11 marzo scorso è stato riportato su queste colonne l’appello che il presidente della Conferenza episcopale calabra, mons. Vincenzo Bertolone, ha rivolto ai cattolici in un’intervista rilasciata…

Pubblicato il: 24/03/2018 – 17:14
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«Il (fondamentale) ruolo dei cattolici in politica»
«Il (fondamentale) ruolo dei cattolici in politica»

L’11 marzo scorso è stato riportato su queste colonne l’appello che il presidente della Conferenza episcopale calabra, mons. Vincenzo Bertolone, ha rivolto ai cattolici in un’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana: davanti all’attuale impoverimento culturale e politico e al senso di generale smarrimento che si trascina dietro, mons. Bertolone si chiede, con don Milani, «che senso abbia avere le mani pulite e tenersele in tasca». E, richiamando il magistero del Concilio Vaticano II, ammonisce: «I cattolici esperti in politica […] non ricusino le cariche pubbliche, potendo provvedere al bene comune e al tempo stesso aprire la via al Vangelo».
Alla scomparsa della Democrazia Cristiana seguì, com’è a tutti noto, la caduta del principio dell’unità politica dei cattolici. Partito di riferimento dei cattolici, la Democrazia Cristiana ne traduceva nell’azione politica i valori e gli interessi fondamentali. E, però, nel corso del tempo, si dovettero pure registrare due fenomeni: da un lato, settori del mondo cattolico si spostavano su formazioni politiche di ispirazione laica; dall’altro, il consenso alla Democrazia Cristiana si allargava a settori del mondo cattolico più “secolarizzati”. Insomma, il “partito dei cattolici” subiva scosse che, dall’interno, cominciavano a minarne l’unità politica. E che, sempre dall’interno, ponevano le premesse di quello che si sarebbe poi definito partito “trasversale” alle varie formazioni politiche. Solo con la caduta della Democrazia Cristiana, nei primi anni ’90 del secolo scorso, deflagrò in tutta la sua evidenza la crisi, prima latente, dell’unità politica dei cattolici.
Crisi che, tuttavia, non travolse il ruolo della Chiesa cattolica nel dibattito pubblico. Certo, portò i cattolici ad una “diaspora”, collocandoli variamente sullo scacchiere politico a seconda delle diverse sensibilità. Ma la Chiesa seppe marcare in maniera sempre più netta la propria autonomia dalla politica. Suggestiva la definizione della Chiesa dell’epoca con la quale Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, titolò il suo libro: “Chiesa extraparlamentare” (2001). Una Chiesa cioè che interviene direttamente, senza mediazioni partitiche, nell’agone pubblico, rivendicando i propri valori e i propri interessi alla luce del messaggio evangelico e del magistero.
Ebbene, all’indomani delle elezioni del 4 marzo, che hanno letteralmente sconvolto il quadro politico, è più che mai lecito chiedersi quale debba essere il ruolo dei cattolici in politica. È indubbio che ci troviamo davanti ad un quadro politico letteralmente sconvolto, tanto che si si arriva addirittura a parlare di “Terza Repubblica”. Se forze politiche, come i 5Stelle e la Lega (Nazionale), sono riuscite a raccogliere insieme più del 50% dei voti, è certo che la nostra storia repubblicana attraversa un tornante importante e delicato. Soffiando abilmente sulle paure, sulle insicurezze, sulle (in)sofferenze della gente, 5Stelle e Lega sono riuscite a gonfiare le proprie vele a scapito di formazioni politiche – penso, in particolare, alla sinistra – di lunga tradizione storico-culturale. Antiche e gloriose roccaforti di sinistra sono state quasi interamente espugnate dalla Lega (Nazionale). È chiaro, allora, che qualcosa di importante e delicato è successo il 4 marzo. Qualcosa che la sinistra ha per troppo tempo “snobbato”, rincorrendo magnifiche sorti e progressive (più delle élites che delle masse).
Detto questo, dopo la tempesta del 4 marzo non c’è per niente la quiete. C’è un tessuto di valori da (ri)costruire in uno scenario nel quale le classi lavoratrici, e anche la classe media risucchiata verso il basso dalla crisi, vedono nell’immigrato chi soffia il lavoro; della globalizzazione sperimentano solo gli effetti negativi (la delocalizzazione produttiva o la liberalizzazione degli scambi commerciali, che, creando squilibri, impoveriscono il tessuto industriale nazionale, perché ne abbattono i livelli occupazionali; ecc., ecc.); dello (sbandierato) dinamismo del mercato del lavoro subiscono la precarietà dell’impiego; della ricchezza prodotta nel suo complesso dal sistema economico si vedono costretti a spartirsi solo una piccola fetta in una logorante guerra tra poveri; dei tradizionali punti di riferimento ideologici, culturali, politici vivono la rovinosa caduta, trovandosi così a navigare in un mondo «liquido»; nel futuro non riescono a scorgere se non il segno dell’incertezza.
In uno scenario di questo tipo c’è spazio – eccome! – per il ruolo dei cattolici in politica. Chiamati a lavorare per la (ri)definizione dei concetti di «bene comune» e di «uguaglianza». Un compito, questo, che i cattolici non possono assolutamente rifuggire. Nel pieno rispetto della Costituzione (e dei suoi valori laici: di don Sturzo – giova ricordarlo – Maritain diceva che «in lui l’attività temporale e la vita spirituale erano tanto più perfettamente distinte in quanto intimamente unite, nell’amore e nel servizio di Cristo»), i cattolici non possono non sentirsi impegnati sul terreno della politica a servizio della comunità nazionale. Per ricostruirne il fondamento etico e culturale. E per restituire alla politica la sua tensione ideale. Perché la dimensione pubblica venga strappata alle mani di chi non la vive che in modo “privatistico”. Perché la politica torni a guardare all’uomo reale, con le sue concrete esigenze e i suoi concreti bisogni.
Sul fondamento della presenza dei cattolici in politica è chiara la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, quando afferma che la Chiesa considera «degna di lode […] l’opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità» (n. 75). E, sempre nel solco del Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II ammonisce i fedeli laici a non «abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune (Christifideles laici, n. 42). Non c’è cattolico che non sia soggetto “intrinsecamente” politico, abbia o meno responsabilità dirette in politica. Non c’è cattolico che non sia chiamato ad esercitare la sua coscienza “politica” nel molteplice articolarsi della vita civile. La più alta forma di carità, è la politica. È la carità il fondamento teologico dell’impegno dei cattolici in politica. Racchiuso nell’immagine di Gesù, fattosi uomo, che cammina lungo le strade del mondo, della storia umana. A soccorrere chi ha bisogno, a guarire i malati, a indicare la via. Il Gesù che si fa “incontrare” dall’uomo concreto. E che consegna un messaggio: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). È tutta qui la centralità della persona umana: in un incontro. Dovunque essa si trovi. E qualunque sia la “situazione” storica, sociale, economica, civile: in una parola, politica.
Questa, dunque, la direzione nella quale deve muoversi l’impegno dei cattolici in politica, perché carità è responsabilità, solidarietà, uguaglianza, giustizia. Responsabilità verso chi rimane ai margini del sistema economico-sociale. Solidarietà come impegno a rimuovere ogni ostacolo all’esercizio dei diritti e delle libertà della persona umana (don Sturzo aveva ben compreso che la solidarietà non è riducibile all’assistenza e alla beneficenza, dovendo costituire piuttosto ruota motrice di un moderno Stato democratico). Uguaglianza come impegno a garantire a ciascuno le stesse condizioni di partenza ed a favorire la mobilità sociale. Giustizia non ridotta solo all’unicuique suum (dare a ciascuno il suo), perché ben più difficile è capire cosa sia il “suo” di “ciascuno”. È intorno a questi pilastri che i cattolici, nella temperie che viviamo, possono concorrere a (ri)definire il concetto di bene co mune. Ne dà le coordinate Papa Francesco quando dice che «il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale» in un contesto di «dispositivi di benessere e sicurezza sociale» e di sostegno ai «gruppi intermedi» e alla «famiglia […] cellula primaria della società». Non c’è bene comune se non c’è pace sociale, che «non si realizza senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva, la cui violazione genera sempre violenza» (Laudato Si’, n. 157).
Resta, infine, da vedere quali siano le forme della presenza diretta dei cattolici in politica. È un tema storicamente di divisione nel mondo cattolico. Nella logica dell’autonomia dei cattolici si muoveva il Partito popolare di Sturzo nel 1919. Non «partito cattolico», ma «partito dei cattolici», capace di parlare a tutti. Dopo la parentesi fascista la Democrazia Cristiana di De Gasperi si muoveva nella stessa logica. Una volta rotta l’unità politica dei cattolici, non manca chi, nel solco dell’insegnamento di don Giussani, crede più alla «multiformità» della presenza dei cristiani nella Chiesa cattolica attraverso i vari carismi e movimenti ecclesiali che non al «pluralismo» dei cattolici nella vita politica. E, però, la Chiesa, a mio avviso giustamente, mostra di essere consapevole che «il carattere contingente di alcune scelte in materia sociale, il fatto che spesso siano moralmente possibili diverse strategie per realizzare o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo, la possibilità di interpretare in maniera diversa alcuni principi basilari della teoria politica, nonché la complessità tecnica di buona parte dei problemi politici, spiegano il fatto che generalmente vi possa essere una pluralità di partiti all’interno dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare – particolarmente attraverso la rappresentanza parlamentare – il loro diritto-dovere nella costruzione della vita civile del loro Paese» (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica – Congregazione per la dottrina della fede, 2002). V’è un paletto: i «principi morali» ed i «valori sostanziali» che costituiscono la «matrice» dell’impegno dei cattolici nella politica. Sulla quale «i laici cattolici sono chiamati a confrontarsi sempre per potere avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali» (ibidem).
È venuta la campagna elettorale. Grida, insulti, promesse sparate ai quattro venti. È venuto il 4 marzo. Si è lasciato dietro, e prospetta, un terreno politico-culturale frantumato che ha bisogno di essere costruito nei suoi fondamenti valoriali. Al di là degli interventi magisteriali, non si è sentita, e non si sente, la voce dei cattolici, che pur militano dentro le forze politiche. A destra, al centro, a sinistra. Ce n’era e ce ne sarebbe bisogno, come abbiamo cercato di dire in queste righe. Per ricostruire le maglie che tengono insieme gli individui tra loro. Che ne costituiscono il tessuto connettivo. Che ne fanno un “noi”. Perché non si possa ancora dire che la «società non esiste: esistono gli individui, uomini, donne e famiglie». Un vecchio adagio thatcheriano, troppo a lungo scimmiottato a destra, e purtroppo anche a sinistra.

*docente dell’università Mediterranea di Reggio Calabria

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