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Regione, gli ex “fannulloni” perdono la causa: no al risarcimento

Alcuni dipendenti del Consiglio avevano chiesto circa 100mila euro a testa a causa della mancata assegnazione di mansioni. Da cui sarebbe anche dipesa la loro sindrome ansiosa depressiva. Il giudice…

Pubblicato il: 01/02/2019 – 12:57
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Regione, gli ex “fannulloni” perdono la causa: no al risarcimento
REGGIO CALABRIA Non chiamateli più fannulloni. Perché adesso un giudice ha accertato che quei dipendenti che avevano trascinato la Regione in giudizio, con la richiesta di un mega risarcimento, qualche attività concreta la svolgevano per davvero: alcuni facevano le fotocopie o preparavano il caffè; altri, in qualità di autisti, scarrozzavano il politico di turno in giro per la Calabria; i più zelanti, invece, svolgevano ricerche al pc per la predisposizione di atti o disegni di legge. Nessuno di loro, però, si è ammalato per il lavoro fatto (o non fatto) in consiglio regionale: quello stesso giudice ha stabilito che la supposta sindrome ansiosa-depressiva accusata da tutti i dipendenti coinvolti non risulta provata. Non c’è, insomma, neanche un certificato medico che possa dimostrarla. IL CASO Si chiude, così, la lite giudiziaria tra la Regione e i quattro dipendenti che avevano presentato ricorso davanti al giudice del lavoro per ottenere un maxi-risarcimento di circa 100mila euro a testa. Il caso, sollevato dal Corriere della Calabria (qui l’articolo), aveva fatto il giro d’Italia e indignato l’opinione pubblica a causa di quanto dichiarato dagli stessi dipendenti, che accusavano la Regione di averli lasciati per più di un decennio senza mansioni né uffici in cui svolgere il loro lavoro. Lo stesso governatore, Mario Oliverio, aveva stigmatizzato (qui) l’azione giudiziaria: «L’atto intentato verso la Regione è immorale e di disprezzo verso il bene comune. Uno schiaffo alle decine e decine di migliaia di disoccupati che soffrono una condizione di povertà e di mancanza di prospettiva di vita». Ad alimentare la polemica era stato, soprattutto il particolare status dei dipendenti in questione: tutti ex portaborse dei consiglieri regionali assunti grazie al famigerato (e controverso) “concorsone”, la selezione, avvenuta sulla scorta della legge 25 del 2001, riservata esclusivamente ai componenti delle strutture di collaborazione degli eletti. La causa, inizialmente, era stata presentata da otto persone, ma in seguito quattro di loro avevano deciso di rinunciare. LA SENTENZA La sentenza del Tribunale di Reggio Calabria (giudice del lavoro Arturo D’Ingianna – Regione difesa da Nicola Greco) ha bocciato quasi tutte le richieste dei quattro dipendenti e li ha anche condannati al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in 4.500 euro complessivi. L’unico spiraglio, per i ricorrenti, è rappresentato dal fatto che il Tribunale ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, in favore del giudice ordinario, in merito alla domanda di risarcimento del danno per la mancata fruizione della progressione verticale. Le pretese dei dipendenti coinvolti (Annamaria Portolese, Grazia Suraci, Domenica Lipari e Riccardo Occhipinti) erano infatti diverse. E il Tribunale le ha ricordate: chiedevano al Consiglio l’assegnazione delle mansioni per le quali erano stati assunti; la somma di 72mila euro a testa quale «indennità accessoria di struttura non percepita»; 15mila euro cadauno «a titolo risarcitorio» per la progressione verticale; 22mila euro e passa per «il danno alla salute loro prodotto dal Consiglio che per oltre 15 anni li ha lasciati e continua a lasciarli inoperosi, senza compiti da svolgere». LA PRESUNTA INATTIVITÀ Dall’interrogatorio dei dipendenti, come riporta la sentenza, è però emersa la loro attività lavorativa: fotocopie, caffè, ricerche, viaggi in auto. Certo, niente di sfiancante o di particolarmente impegnativo, ma tanto basta, per il Tribunale, per accertare la sussistenza della collaborazione con i consiglieri regionali di riferimento. «Non è dunque emersa – ha scritto il giudice – l’assenza totale di lavoro perché poi i ricorrenti comparsi hanno confermato che le attività le hanno svolte anche se neppure hanno dedotto in modo preciso quanto e come hanno lavorato per far comprendere l’entità effettiva di non utilizzazione o sottoutilizzazione». 72MILA EURO Quanto ai 72mila euro di risarcimento, dovuti – secondo i ricorrenti – per via dei 400 euro mensili di “indennità accessoria di struttura” non percepiti fin dall’ottobre 2002, il giudice ha respinto anche questa pretesa, in quanto i dipendenti non hanno dedotto «una normativa contrattuale collettiva che supporti la pretesa». IL DANNO ALLA SALUTE La richiesta più singolare era però legata al presunto danno alla salute che i quattro “lavoratori” avrebbero subito a causa della loro condizione professionale. Da qui il preteso risarcimento di 22mila euro a testa. «Tutti hanno lamentato una sindrome ansioso depressiva. Va però rilevato – ha annotato il giudice – che a prescindere qui dalla sussistenza della condotta antigiuridica, della inattività lavorativa e dell’assenza di postazione di lavoro, in ogni caso per il risarcimento del danno occorre allegare e provare un effettivo danno». I ricorrenti non avrebbero fatto nulla di tutto questo: «Nessun riscontro documentale di affezione medica né alcuna relazione medica illustrativa supporta la domanda dei ricorrenti. Si adduce peraltro una riduzione della capacità di lavoro senza far comprendere in concreto le ragioni. Manca con evidenza ogni elemento documentale di riscontro clinico della loro affermazione che supporti in qualche modo la relazione causale e la sussistenza in capo ai ricorrenti di una menomazione rilevante e risarcibile».

Pietro Bellantoni p.bellantoni@corrierecal.it

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