“Il tempo, il tempo, insomma, porta via … porta via la memoria, porta via le immagini, porta via un po’ tutto … ma come si fa a dimenticare? Non puoi dimenticare. Non puoi dimenticare perché noi abbiamo passato anni … anni atroci.” (Giacomina Ercoli, partigiana). Forse per quanto riguarda la Calabria non si tratta di dimenticare, semmai di recuperarla la memoria, di tirarla fuori da silenzi, sottovalutazioni, oblii. Grazie a numerosi storici, studiosi, istituti di ricerca, scrittori, si va delineando una immagine un po’ diversa rispetto a quella stereotipata di questo pezzo di terra e dei suoi abitanti anche per quanto riguarda la partecipazione calabrese alla Resistenza, da sempre considerata esclusiva prerogativa delle popolazioni del nord, con i meridionali spettatori passivi di una vicenda fondativa della nostra democrazia. E invece? Invece quei quattro gatti dimenticati che dalla storia hanno preso solo bastonate si scopre erano migliaia. Una “Resistenza taciuta”, per dirla utilizzando il titolo di un libro, che grazie al lavoro di censimento avviato in alcune regioni con le banche dati dei partigiani, sta emergendo in tutta la sua portata. Solo tra Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna sono migliaia i nativi calabresi censiti attivi nella lotta partigiana. Centinaia quelli caduti in combattimento con figure di assoluto rilievo meritevoli di medaglie al valor militare (sette d’oro, sei d’argento e quattro di bronzo). Come si spiega? C’è qualcosa che non funziona in un popolo capace di dimenticare una simile e straordinaria epopea. Parlare poi di donne calabresi nella Resistenza significa andare alla ricerca di grandi dimenticate. Recuperare solo i loro nomi appare molto, molto più difficile. Tra le tante speranze tradite nel dopoguerra per le donne va annoverato anche il mancato riconoscimento della loro resistenza al nazi-fascismo che fu insieme civile e militare. Iniziano dando rifugio agli sbandati del dopo 8 settembre, una gigantesca operazione di salvataggio, secondo alcuni storici forse la più grande della nostra storia, fatta senza direttive, indicazioni, che conta solo sull’azione individuale, un maternage di massa secondo Anna Bravo. Si trasformano in moderne Antigone sfidando il nuovo tiranno per sottrarre il più velocemente possibile al ludibrio i corpi esposti a monito degli impiccati, torturati, fucilati. Sono le promotrice degli scioperi nelle fabbriche e quando non è possibile ne sabotano la produzione. Stringono relazioni, coinvolgono parenti, vicine, compagne di lavoro, frequentano i mercati facendo insieme spesa e propaganda politica, scrivono e ciclostilano in case che sono nello stesso tempo abitazioni e centri di resistenza, fanno del proprio corpo il nascondiglio di documenti, sono infermiere, informatrici, portaordini, collegatrici. E infine imbracciano le armi. Qualcosa, com’è evidente, che va ben al di là del termine vago e riducente di “staffetta” che inserisce le donne in un ruolo secondario. Ma soprattutto fa comprendere l’errore di ridurre la Resistenza solo ad una vicenda armata che al più le concede il compito di un “contributo”. Solo nella seconda metà degli anni settanta la storiografia inizia a recuperare il senso di questo impegno recuperando le donne non al ruolo di comprimarie ma di protagoniste. Al di là della facile retorica, ha funzionato per molto tempo il pregiudizio che avvolse le resistenti dopo la fine della guerra, in una Italia desiderosa di tornare al perbenismo e di riportare le donne al loro ruolo tradizionale. E’ storia che alle partigiane torinesi della brigata Garibaldi venne proibito dal Pci di sfilare dopo la liberazione perché il partito voleva accreditarsi come forza rispettabile, mentre in molte altre città furono i capi brigata a consigliare alle donne di non sfilare o almeno di farlo senza armi o vestite da crocerossine o in borghese, con un “Bella ciao” che scandì per anni anche l’idea che l’uomo andava mentre le donne restavano. “Alla sfilata non ho partecipato, ero fuori ad applaudire. Ho visto passare il mio comandante. Poi ho visto Mauri col suo distaccamento con le donne che avevano, insieme. Loro si che c’erano! Mamma mia! Per fortuna che non sono andata anche io. La gente diceva che eran delle puttane …” (Intervista ad una partigiana nel film-documentario di Liliana Cavani “La donna nella Resistenza”). Anche per questo non sapremo mai il numero esatto delle resistenti. Continuare a discutere sulla loro dimensione numerica riferendosi ai criteri di oltre settant’anni fa non ha senso. Occorreva aver svolto almeno tre mesi in armi, aver partecipato a tre azioni di guerra o sabotaggio o avere fatto almeno tre mesi di carcere per essere riconosciute “partigiani combattenti”. Per quello di “patriota” si richiedeva un impegno sostanziale e continuato, sotto forma di cessioni di denari, viveri, armi, munizioni, materiali sanitari, ospitalità clandestina, o aver fornito importanti informazioni ai fini di buon esito della lotta di liberazione. Moltissime, visto il rinnovato clima che spingeva verso un ritorno al privato delle donne, non richiesero mai la qualifica. Per molte altre, che avevano partecipato ad una resistenza civile senza armi non fu nemmeno possibile farlo. Altre ancora, che pure avevano messo in gioco la propria vita, ritennero solo di aver fatto ciò che era giusto. Le donne avevano combattuto non solo per la libertà ma anche per affermare una Italia diversa per i loro diritti civili e sociali che solo molto lentamente furono ad esse concesse nonostante la nuova Costituzione. Rimangono i numeri ufficiali che parlano di 4.653 donne arrestate, torturate, condannate; 2.750 deportate nei campi di concentramento nazisti e 623 fucilate o morte in combattimento. Ad esse furono conferite sedici medaglie d’oro al valor militare e diciassette d’argento. Per questo, oggi che quasi tutte non sono più in vita rimane difficile, sulla base della sola documentazione ufficiale, ricostruire il quadro reale a partire dai nomi e dalle storie. I nomi di battaglia di alcune partigiane calabresi li conosciamo: Cecilia, Cunegonda, Angiolina, Prima, Beba, Reginella, Nina, Lia Ferrero, Maia, Mina … Erano casalinghe, operaie, professoresse, contadine, alcune nemmeno maggiorenni. Oggi, di molte di loro, tranne il nome, non conosciamo praticamente nulla, non una foto in quell’oltremondo che si chiama internet. Anche nei loro paesi di origine il ricordo sembra definitivamente perso. Alcune storie magnifiche sono venute alla luce grazie anche all’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo, all’ANPI, a studiosi che tengono accesa l’attenzione su una vicenda che riserva sempre nuove sorprese. Giuseppina Russo di Roccaforte del Greco una delle Api furibonde dell’omonimo libro che da organizzatrice degli scioperi nelle fabbriche finisce come partigiana combattente, dalla resistenza civile a quella armata. Anna Cinanni, di Gerace, sorella di Paolo, che subì ripetute sevizie in carcere, una delle dodici biografie di partigiane contenute nel libro La Resistenza taciuta e nell’altro volume di Lentini-Guerrisi I partigiani calabresi nell’Appennino Ligure-Piemontese, anche lei protagonista di quel raffinato gioco delle apparenze alla base di episodi infinite volte narrati di donne che superano i posti di blocco con le loro sporte piene di volantini o munizioni – piene di politica e di guerra – esibendo i simboli della routine domestica o della femminilità inoffensiva. Caterina Tallarico di Marcedusa, sorella del più noto comandante partigiano “Frico” che appena laureata in medicina sale in montagna e comincia a ricoprire il ruolo di medico nella brigata del fratello Federico esercitando non solo verso i partigiani feriti e bisognosi di cure, ma anche nei confronti di tedeschi e fascisti prigionieri. Per fortuna un suo libro autobiografico, Una donna … un medico … una vita, ci permette di avere tutte le informazioni di prima mano su di lei. Anna Condò di Reggio Calabria, testimone della strage della Benedicta in cui fu ucciso il fratello. E poi tante
altre donne di cui conosciamo meno: Cosco Lucia (Catanzaro); Lucio Alba (Crotone); Lucio Assunta (Crotone); Di Tocco Maria (Vibo Valentia); Oneglia Antonietta (Catanzaro); Carpino Maria (Colosimi), Fadel Giacomina (Cosenza); Arcidiaco Domenica (San Lorenzo); Bazzani Gazagne Margherita (Sant’Ilario dello Ionio); Pontoriero Anna (Rosarno); Pontoriero Giulia (Rosarno); Pontoriero Tina (Rosarno); Torello Maria (Reggio Calabria); Panuccio Maria (Sant’Eufemia d’Aspromonte); Gangemi Concetta (Palmi); Pata Franceschina (Mileto); Pata Angela (Mileto); Di Tocco Bice (Reggio Calabria); Ranieri Isolina (San Giorgio Morgeto); Forte Carinda (Saracena); Montanari Carmelina (Siderno); Iaconetti Maria (Carolei); Barone Maria (Vibo Valentia); Vuorinna Giovanna (Rossano Calabro) …
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