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L'Appello ribalta il giudizio sull'omicidio del boss Femia a Roma: due assolti

Sestito e Pizzata erano stati condannati all’ergastolo in primo grado. I giudici li hanno assolti “per non aver commesso il fatto” dopo l’annullamento della sentenza da parte della Cassazione

Pubblicato il: 15/05/2019 – 10:56
L'Appello ribalta il giudizio sull'omicidio del boss Femia a Roma: due assolti

ROMA Ribaltamento totale nel nuovo giudizio d’appello nei confronti di Massimiliano Sestito e Francesco Pizzata, sotto processo perché accusati di essere componenti del gruppo ‘ndranghetista che nel gennaio 2013, in località Castel di Leva, all’estrema periferia di Roma, uccise il boss calabrese Vincenzo Femia. La seconda Corte d’appello di Roma ha mandato assolti entrambi con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Tortuoso l’iter processuale che ha riguardato Sestito e Pizzata. In primo grado furono condannati all’ergastolo; i giudici d’appello però confermarono il carcere a vita per Sestito, riducendo invece a 25 anni di carcere la condanna per Pizzata, al quale riconobbero le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti del metodo mafioso e della premeditazione. L’intervento della Cassazione, nel settembre dello scorso anno, portò all’annullamento della seconda sentenza, con l’invio del processo a un’altra Corte d’assise d’appello con la richiesta di rinnovare il giudizio. E i nuovi giudici, dopo una lunga camera di consiglio, nella serata di ieri hanno ribaltato completamente il giudizio, mandando assolti Sestito e Pizzata con la formula più ampia, disponendone la scarcerazione se non detenuti per altra causa.
Vincenzo Femia, all’epoca dell’omicidio, era ritenuto personaggio di primo piano nella malavita della Capitale, con diversi precedenti penali tra cui associazione mafiosa e appartenenza alla cosca di San Luca, conosciuta per la strage di Duisburg del 2007. Fu trovato morto il 24 gennaio 2013, ucciso con numerosi colpi di pistola mentre era dentro l’auto della moglie. Lo spessore criminale della vittima e le modalità dell’omicidio indussero gli investigatori a ricondurre il delitto a un contesto di tipo mafioso. Tutto rimase però oscuro fino a quando Gianni Cretarola, diventato collaboratore di giustizia (e per questi fatti giudicato separatamente col rito abbreviato), con le sue dichiarazioni disse la sua anche su questo delitto. Confessò di far parte della cellula ‘ndranghetista e che il reale movente dell’omicidio era da ricollegare i contrasti insorti nella spartizione del mercato della droga nella capitale (160 chili di cocaina colombiana trasportati a Roma dalla Spagna nell’agosto 2012). Il compito del collaboratore (che, oltre a descrivere le modalità dell’azione, indicò i partecipanti e addirittura il numero dei colpi esplosi) era stato quello di accompagnare Femia al posto individuato per l’agguato.

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