LAMEZIA TERME «Dottoressa, se a Reggio ci sono le vacche sacre a Limbadi ci sono le pecore sacre». Le pecore sacre alle quali si riferisce il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso appartenevano a Giovanni Rizzo, detto “mezzo dente”, appartenente all’omonima famiglia legata al clan Mancuso di Limbadi. Giovanni Rizzo, racconta il collaboratore durante il processo Rinascita-Scott «faceva pascolare le sue pecore ovunque», anche nel terreno di Nino Vardè (oggi defunto, ndr) padre dell’allora fidanzata di Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello di Emanuele e figlio di Pantaleone Mancuso detto “L’ingegnere”. Vardè avvisa Giuseppe Mancuso dell’invasione, nel proprio terreno, delle pecore di Rizzo. Giuseppe Mancuso, racconta il fratello, avvisa “mezzo dente” di tenere le proprie pecore lontane dai terreni di Vardè ma le richieste vengono più volte ignorate. «A questo punto mio fratello va al capanno di Rizzo e gli spara le contro le pecore uccidendo diversi capi di gregge». La reazione dei Rizzo non si fa attendere. Per prima cosa sparano contro la Smart di Nino Maccarrone, cognato di Emanuele Mancuso. «In seguito Leo Rizzo, Giovanni Rizzo e Giuseppe Raguseo si sono recati da Salvatore Comerci – che si era nel circuito del narcotraffico per conto di mio fratello – perché cercavano il proprietario di una Fiat 500 visto che avevano saputo che due soggetti a bordo di una 500 bianca avevano minacciato il custode del gregge prima di sparare sulle pecore. Non so se minacciarono o picchiarono Comerci. Gli chiesero se mio fratello fosse andato da solo a sparare alle bestie».
L’episodio successivo si svolge verso le 5:30 del mattino. «Sono stato svegliato mente dormivo e ho visto Leo Rizzo e Giuseppe Raguseo a bordo di una moto e Giovanni Rizzo su una Audi grigia che sparavano contro casa mia. Ricordo che mio fratello non era in casa e che mio padre ordinò di raccogliere e buttare tutti i colpi che erano stati sparati». Qualche colpo però è rimasto incastrato in una casetta rurale che si trova nelle pertinenze della villa dei Mancuso e che la Procura produce come prova documentale. «Dopo la sparatoria mio padre – prosegue Mancuso – chiede a mia madre di andare da Nino Gallone, suo braccio destro. Mio padre aveva preparato la radio trasmittente per comunicare con la famiglia e si era nascoso a 300 metri da casa dove c’è una fitta vegetazione».
Il collaboratore racconta di non avere visto suo fratello per diversi giorni dopo quella sparatoria. In quel periodo un altro episodio mette in allarme tutta la famiglia: il duplice tentato omicidio di Romana Mancuso e Giovanni Rizzo. Le sparatorie e il tentato omicidio (che aveva fatto finire le vittime in ospedale in gravi condizioni) avevano suscitato l’attenzione della stampa. E questo innervosiva gli animi nel clan Mancuso. Tanto più che l’ex sindaco di Nicotera Salvatore Reggio (non imputato in questo procedimento, ndr) aveva fatto dichiarazioni sulla stampa sul tema della legalità. Questo fatto inasprì gli animi tanto che Pantaleone Mancuso “l’ingegnere”, racconta il collaboratore, aveva rimproverato il primo cittadino per quelle esternazioni. Quest’ultimo gli rispose che, visto il suo ruolo, non poteva esimersi da quella “parata”.
Alla fine il clan decise di trovare un accordo per fermare il clamore sulla vicenda «perché la storia venisse insabbiata». Emanuele Mancuso si dice sicuro che il tentato omicidio fosse una questione interna alla famiglia. «Mio fratello si fece mettere nella cella con Antonio Cuturello, figlio di Roberto cognato di Giovanni Rizzo, per far vedere i rapporti con i Rizzo erano buoni».
«Zio, ma dove posso andare a fare i furti? Voi controllate tutto!». Davanti allo zio Luigi Mancuso, boss incontrastato nella provincia di Vibo Valentia, Emanuele Mancuso aveva chiesto consiglio per sapere dove o da chi poter effettuare furti, visto che commercianti e imprenditori della zona era tutti sotto il controllo delle cosche. «Andate fuori», gli avrebbe consigliato “Zì Luigi”. Emanuele Mancuso aveva però deciso di fare un furto alla gioielleria Limardo «perché era un confidente della polizia e io lo vedevo come un infame, un traditore. Siamo entrati e ci siamo presi la roba che c’era all’interno della gioielleria». Il giovane rampollo aveva però fatto male i conti con gli equilibri messi in atto dal clan. Dopo il furto Antonio Mancuso, il figlio di Peppe ‘Mbroglia, era avvelenato. «Io dissi e Antonio concordammo che avrei restituito tutto, tenni per me cose di Swarowsky di minor valore». «Limardo aveva accusato, lo zio Diego, papà e altri e io pensavo che lo potevo derubare. In realtà, però, mangiava con la famiglia di Antonio Mancuso, operava per la cosca e aveva ritrattato tutto quello che aveva detto». Limardo era inviso a Emanuele Mancuso anche per un altro motivo. «Limardo minacciava e maltrattava una povera donna che abitava sopra la gioielleria. La accusava di avere avuto un ruolo nel furto perché madre di un mio sodale Davide Latorre. Io andai da lui e gli dissi: “La prossima volta che dici qualcosa a quella donna, ti metto sotto e poi entro nel negozio con la macchina”», racconta Mancuso. Limardo corse ad avvertire delle minacce Luigi Mancuso che spedì il nipote a chiedere scusa al gioielliere. «Ci siamo incontrati in un bar ma a me non piaceva come parlava Limardo: “Luigi di qua, Luigi di là, Luigi è un papa”». Alla fine i due si sono comunque lasciati male. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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