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«Caso Valarioti: depistaggi anche nel Pci?». La replica di Sprizzi

«Ieri, mi è stato segnalato un articolo pubblicato il 04/04/2021 dal quotidiano  Il Corriere della Calabria dal titolo “Caso Valarioti: depistaggi anche nel PCI?”, scritto  dallo storico e scrittore…

Pubblicato il: 10/04/2021 – 18:03
di Antonino Sprizzi
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«Caso Valarioti: depistaggi anche nel Pci?». La replica di Sprizzi

«Ieri, mi è stato segnalato un articolo pubblicato il 04/04/2021 dal quotidiano  Il Corriere della Calabria dal titolo Caso Valarioti: depistaggi anche nel PCI?”, scritto  dallo storico e scrittore Rocco Lentini,   in replica al dibattito che si è sviluppato nelle scorse settimane, anche sui social, in merito al libro da lui scritto sulla figura di Peppe Valarioti, “L’utopia di un intellettuale”. Per la verità, mi pare che Lentini abbia inteso replicare non solo al dibattito che si è sviluppato sui social, ma anche all’articolo pubblicato da un’altra testata, nel quale io mi sono permesso di intervenire sui contenuti del suo libro, in maniera più organica.  Mi permetterà, quindi, lo storico e scrittore Lentini, di replicare puntualmente a quanto lui scrive, non foss’altro perché anche io, sono d’accordo con quanto affermava Ernesto Guevara, citato dal Lentini, che “o siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la discussione o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza”.
Sono d’accordo con Rocco: “Una tesi, supportata dai documenti, va combattuta con documenti opposti, non con la memorialistica che, com’è noto, sconta il difetto della “selezione” tra ciò che è conveniente dire e ciò che è conveniente tacere per collocare al meglio la “pratica dei singoli vissuti”. Tutto questo, però, mi consenta Rocco,  a patto che i documenti portati nel dibattito,  vengano utilizzati, e vengano collocati storicamente in maniera corretta, altrimenti si rischia di dare vita a delle ricostruzioni quanto meno arbitrarie e, in qualche caso, ad  incorrere in falsi storici. A questo proposito, vorrei ricordare a Lentini, che la mia contestazione è partita proprio da una sua  ricostruzione arbitraria del PCI di quegli anni, laddove egli affermava, sia in una intervista on line che in un’intervista scritta, che in quegli anni  «….Il Pci voleva a tutti i costi il sorpasso della Dc e non sempre il reclutamento della classe dirigente avveniva in maniera trasparente…..” Facendo con ciò intendere che in provincia di Reggio Calabria, il PCI di allora, pur di andare al governo, fosse  stato disponibile a reclutare una classe dirigente “compromessa”. Che Lentini si sia rammaricato che io abbia contestato sui social  questa sua ricostruzione, a dir poco arbitraria, del PCI dell’epoca, lo posso capire, ma penso francamente che se ne debba fare una ragione. Del resto, è lui che ha utilizzato un quotidiano on line per rilasciare un’intervista, che è stata poi diffusa sui social. Nel prosieguo del suo articolo Lentini, poi, attribuisce a me persino la responsabilità di aver innescato una polemica con intellettuali francesi di indiscussa fama internazionale,  “il cui contributo alla storia delle idee è universalmente riconosciuto”, quasi che io mi fossi addirittura sognato di polemizzare con il pensiero filosofico di Jean Paul Sartre, o con  Roland Barthes, con Michel Faucault, con Felix Guattari e con Gilles Deleuze. La verità è un’altra ed è molto più semplice e cioè, che è il Lentini che, scorrazzando tra un intellettuale ed un altro, tra una citazione dotta ed un’altra, giunge persino a tirare in ballo questi indiscutibili intellettuali, ricorrendo alla citazione di un articolo di Lotta Continua del 5 luglio del 1977, nel quale viene riportato un appello sottoscritto da questi intellettuali francesi, contro la repressione dei dissidenti, in cui  essi esprimono una “critica politica” al PCI dell’epoca, reo, a loro avviso, di appoggiare una tale politica repressiva. Si tratta quindi di una critica politica, e non di trattati di filosofia, non sto mettendo in discussione “L’essere e il Nulla “ di Sartre, ma un documento politico che, come peraltro riporta lo stesso Lentini, “provocò polemiche e divise il mondo politico e culturale italiano”.Si può quindi non essere d’accordo con quella critica politica, per quanto autorevole,  ma questo non significa mettere in discussione il grande contributo intellettuale di tali personaggi. La critica che mi si rivolge, questa si, mi pare strumentale e grossolana, non all’altezza di uno storico e scrittore di valore quale è Lentini. Non sarebbe male, a questo proposito ricordare il clima politico di terrore che si respirava nelle varie città italiane nella seconda metà degli anni ’70: le città erano deserte, la gente aveva paura di uscire di casa per cui, se si voleva realmente sconfiggere il terrorismo, così come poi avvenne, era necessario non avere tentennamenti; non si potevano accettare le posizioni di quanti, intellettuali o meno, si rifugiavano dietro lo slogan “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”; questo tipo di posizione ambigua finiva, oggettivamente, col favorire le Brigate Rosse e, nella sostanza vera, avrebbe finito col favorire il prevalere della reazione in Italia”. Farebbe bene, quindi, Lentini, a replicare nel merito ed alla sostanza delle cose da me contestate, e a non fabbricare quadri inesistenti su cui sparare. A  tale proposito, vorrei ulteriormente precisare che, nell’articolo da me scritto, non ho inteso polemizzare con la legittimità di questi grandi intellettuali di esprimere quelle opinioni politiche sul PCI dell’epoca, peraltro anche da me non condivise; ho inteso mettere in discussione ben altro, e cioè la ricostruzione storica a dir poco avventata fatta dal Lentini laddove egli scrive: “….Il percorso di “presa del potere” del Pci, fallito quello elettorale del 1976, deviò su una posizione di “compromesso” i cui costi furono scaricati sulle classi deboli. Nell’ottica del compromesso storico il Pci sostenne infatti apertamente l’azione repressiva del governo sul movimento del Settantasette, subito definito d’impronta sovversiva….” 

 È a proposito di queste affermazioni del Lentini, che io replicavo: 

“Si tratta di affermazioni del tutto gratuite, mi consenta di dirlo Rocco, innanzitutto perché il risultato elettorale del 1976 fu tutt’altro che un fallimento. Fu, al contrario, un importante successo elettorale, in continuità con il risultato del referendum sul divorzio del 1974, e col risultato delle amministrative e delle regionali del 1975. La verità è che il Pci, non è allora che, per dirla con Lentini, “deviò su una posizione di compromesso”. Ma la linea del “Compromesso Storico” fu una precisa scelta politica intuita ed avanzata da Berlinguer, su cui poi si attestò tutto il Partito, esposta in tre famosi articoli apparsi sulla rivista settimanale “Rinascita”, nel settembre del 1973, all’indomani dei fatti del Cile che videro la sconfitta della democrazia in quel Paese, e l’assassinio del Presidente Salvador Allende, operati attraverso il golpe del generale Augusto Pinochet. In quegli articoli, il tema era “lo sviluppo della democrazia in Occidente”. Berlinguer si interrogava sulla lezione cilena, e indicava una via da seguire, per impedire che anche in Italia potessero prendere il sopravvento le forze della reazione e neofasciste. La verità è che, proprio per impedire che la linea del Compromesso Storico potesse dare i suoi frutti, da parte delle forze della reazione si sviluppò una strategia vera e propria che aveva i suoi ideatori internazionali in alcune centrali americane, che non disdegnarono di utilizzare in Italia la contestazione prima, e il terrorismo brigatista dopo. Si partì, infatti, dagli “indiani metropolitani” che contestarono il comizio del segretario generale della CGIL Lama a Bologna, e si giunse, a distanza di due anni, nel marzo del 1978, al sequestro e poi all’assassinio dell’On. Aldo Moro, Presidente della DC”.

Poi, proseguendo nel suo articolo, Lentini ci rammenta che nella Piana di Gioia Tauro, ci sarebbero stati, negli anni Settanta, movimenti alla sinistra del PCI, e ci ricorda la radiazione del gruppo del Manifesto, l’elezione di Alfonso Gianni al Parlamento la forte presenza di Democrazia Proletaria, ecc.ecc. Parliamoci chiaro, anche qui, non mi sono mai sognato di pretendere che tutto questo non esistesse, ho semplicemente rivendicato le ragioni per cui ad esempio, lo stesso Peppe Valarioti, e molti altri di noi, decidemmo di aderire al PCI, senza cedere al fascino del “Movimentismo” presente in quegli anni nel nostro Paese ed anche in Calabria.

Ma veniamo ora alle questioni più importanti sollevate da Lentini, quelle che riguardano la vicenda relativa al processo per l’assassinio di Valarioti. 

Si chiede legittimamente Lentini:

“Come si spiega che un Pci provinciale, complessivamente attestato su una linea di fermezza sulla lotta contro la criminalità, le testimonianze di coraggiosi compagni tra i quali lo stesso Ninì, e un collegio difensivo di tutto rispetto, con avvocati noti anche in ambito internazionale, non abbia inciso nel fare piena luce sull’assassinio di Peppe e, soprattutto, non abbia presentato appello alla sentenza di primo grado?”
Ecco, questa è una domanda alla quale io non posso dare una risposta secca e lineare, e provo a spiegarne le ragioni. Ricordo che il clima del processo era estremamente teso: da una parte c’eravamo noi, che chiedevamo che i mandanti e gli esecutori dell’assassinio venissero individuati e perseguiti, e speravamo che il processo riuscisse ad inchiodare gli assassini; che finalmente  giustizia venisse fatta. Il Pci Nazionale si era costituito parte civile nel processo, contro tutti coloro che la magistratura inquirente aveva individuato come responsabili, a qualsiasi titolo, dell’assassinio. Sin dal primo momento, noi chiedevamo che si indagasse in tutte le possibili direzioni. La Procura della Repubblica di Palmi, diretta dal procuratore Tuccio, però, si era convinta che l’assassinio fosse maturato nell’ambito della cooperativa Rinascita, ed in questo senso aveva imbastito il processo. Si fece un processo alla cosca Pesce, ma si fece anche un processo incentrato sugli interessi della cosca Pesce all’interno della cooperativa Rinascita. Era la linea giusta? Noi non lo sapevamo, non eravamo noi a condurre le indagini, ma i magistrati inquirenti. La nostra linea, era comunque quella di non ostacolare le indagini della magistratura, ma anzi di assecondarle per quanto fosse possibile. La verità è che quella linea si rivelò inefficace, ed alla fine il boss Giuseppe Pesce, indicato dalla pubblica accusa come il mandante dell’assassinio, venne assolto con formula piena. Non si riuscì a raggiungere alcuna verità processuale. Gli inquirenti avrebbero dovuto indagare anche in altri settori? Io ritengo di si, ma noi del Pci reggino, non potevamo fare altro che chiedere che si indagasse in tutte le direzioni possibili. Nel contempo, non dovevamo assolutamente dare la ben che minima sensazione che volessimo ostacolare le indagini. Questo abbiamo fatto, anche a costo di creare problemi a compagni cari, che  sapevamo essere integerrimi, come Giovinazzo, Rosarno e Spataro. 

Rocco Lentini, a questo punto, chiama in causa le dichiarazioni di Mimmo Giovinazzo,  fatte nelle settimane scorse, intervenendo nel  dibattito che si è sviluppato intorno al suo libro.  

Dice Rocco Lentini: “l’intervento dell’On. Sprizzi reso pubblico sulla sua pagina Facebook (quei social, da me invisi!) ha avuto il merito di aprire una rete di discussione, nella quale è rimasto impigliato anche lui. È chiamato in causa, dal prof. Domenico Giovinazzo…..” e poi aggiunge: “…..È legittimo chiedere all’On.le Ninì Sprizzi di voler chiarire se è stato “attore del depistaggio” e di quale depistaggio è accusato dal prof. Giovinazzo, già presidente della Rinascita “da settembre del 1979 a luglio agosto del 1980”? Di chiarire qual è “l’indecente incontro” di cui parla Giovinazzo?  
E se le parole di Giovinazzo, scritte in alcuni post sulla pagina
 Facebook – mai smentite da Sprizzi che, anzi, ringrazia Giovinazzo per il contributo – risultassero vere e ci furono nel partito tentativi di depistaggio, “impegni assunti” da autorevoli dirigenti nazionali “non mantenuti”, “forniture di ditte palmesi” e “incendio del municipio….”.

Questi aspetti sono troppo importanti, e quindi voglio chiarirli con puntualità: Voglio assicurare Rocco Lentini, ma soprattutto chi segue attentamente questo dibattito, che non sono assolutamente rimasto impigliato in alcunché, e inizierò con il chiarire quale sia stato “l’indecente incontro” di cui parla Giovinazzo. Lo stesso Giovinazzo, ma non solo lui, potrà confermare o smentire tranquillamente quanto dico, anche perché all’indecente incontro, non eravamo in tre, ma in quattro, e cioè Mimmo Giovinazzo, la moglie, io, e Peppino Lavorato. Quell’indecente incontro, si è  svolto a casa di Giovinazzo,  allorquando, dopo l’apertura del procedimento da parte della magistratura inquirente, il Partito chiese a me e a Peppino Lavorato di comunicare ai compagni Giovinazzo,  Rosarno e Spataro, che il Partito si sarebbe costituito parte civile anche nei loro confronti e quindi chiedeva loro di autosospendersi. Parliamoci chiaro, sapevamo che Mimmo Giovinazzo era persona specchiata, Rocco Rosarno, addirittura era stato colui che aveva denunziato il tentativo di truffa all’Aima attraverso il tentativo di far passare più volte i camion che portavano le arance allo scondizionamento, Mimmo Spataro, non c’entrava nulla con le questioni loro addebitate dai magistrati inquirenti, tanto è vero che, dopo poco, tutti e tre furono prosciolti da tutte le accuse. Ma il Partito, aveva deciso che non dovessimo dare l’impressione di voler nascondere alcuno scheletro nell’armadio, e che quindi ci saremmo costituiti parte civile nei confronti di chiunque, anche incidentalmente,  la magistratura avesse inquisito nell’ambito delle indagini per scoprire gli assassini di Valarioti; anche nei confronti di coloro che sapevamo essere persone di indiscussa moralità. Lo avremmo fatto anche se le indagini si fossero indirizzate verso chiunque di noi. Ebbene, quando Peppino Lavorato ed io siamo andati a trovare a casa Mimmo Giovinazzo, che era in partenza per Bologna, per proporgli di accettare la sospensione e la costituzione di parte civile da parte del partito, quell’incontro divenne drammatico. Mimmo Giovinazzo si sentì ferito ingiustamente dal partito, scagliò per terra l’orologio, disse a Peppino Lavorato: “Peppinuzzu, mi dispiace, ma io questo non lo posso accettare, anche se me lo chiedi tu”. Mimmo era sconvolto e ferito, per lui, la costituzione di parte civile del partito nei suoi confronti, era una “proposta indecente”, e noi non dovevamo chiedergli di accettarla. Si sente ancora oggi, quando Mimmo scrive di quella vicenda, che tuttora quella ferita la sente viva, la sente come una profonda ingiustizia che gli ha inferto un partito, quel Partito, che poco tempo prima gli aveva chiesto di assumere incarichi di responsabilità all’interno della cooperativa, proprio come garanzia di una linea di integrità, di rigore, di onestà. Era ingiusto quanto il partito chiedeva a questi compagni innocenti? Probabilmente si, ma noi avevamo scelto quella linea politica e la perseguivamo a tutti i costi.” Chieda Rocco Lentini a Mimmo Giovinazzo e a Peppino Lavorato se quanto dico risponde al vero o meno! Per il resto…, depistaggio…, se c’è stato, lo ha perseguito chi ha incentrato tutte le indagini solo sulla cooperativa Rinascita; ma non eravamo noi a condurre le indagini, noi eravamo vittime dell’assassinio di un nostro caro compagno. Non ci siamo sottratti a nulla, abbiamo testimoniato su tutte le circostanze di cui eravamo a conoscenza. 

Poi Mimmo parla di “ impegni assunti” da autorevoli dirigenti nazionali del Partito, di cui io non sono a conoscenza, così come non so di cosa parli Mimmo Giovinazzo quando riferisce di “forniture di ditte palmesi”, io non mi sono mai occupato né di forniture, né di appalti o quant’altro e lo stesso Giovinazzo potrà offrirne testimonianza. Purtroppo su questi aspetti non sono io che posso dare delucidazioni. Non so quali impegni avesse assunto Mussi nei suoi confronti, né so di questo specifico incontroin federazione con Pangallo e Fantòdi cui parla, e a cui egli avrebbe dovuto partecipare, nel quale avrebbe dovuto dire che una famiglia mafiosa li minacciava. In quella fase le riunioni erano continue e a volte convulse, e coinvolgevano l’intero gruppo dirigente della federazione. Ma di  questa specifica circostanza, è con Giovinazzo, Pangallo e Fantò che si dovrebbe parlare. Immagino che si trattasse sempre della stessa questione, della richiesta dei magistrati di contattare i compagni più esposti e di verificare se avessero ricevuto pressioni da parte delle famiglie mafiose di Rosarno, ma non ho alcun elemento per dire altro. 

Infine, Lentini chiede Chi intervenne, e perché, per non proporre appello?

Francamente, su questo non so dare alcuna risposta, non eravamo noi del gruppo dirigente reggino a decidere della proposizione di appello, forse, occorrerebbe chiederlo a livelli più alti, magari a Mussi o a qualcun altro. Certo, l’esito negativo del processo di primo grado, le divisioni nel gruppo dirigente del partito regionale, di cui ho scritto a più riprese, hanno sicuramente contribuito a farci commettere errori e a non reagire adeguatamente rispetto alle omissioni, nella costituzione di parte civile in appello. Ma la verità è che la magistratura avrebbe dovuto reimpostare di sana pianta il processo, e indagare su tutti i possibili fronti, compresi gli interessi ben più corposi rispetto a quelli manovrati dalla cooperativa. 

Quei grandi interessi che erano stati, in quegli anni,  oggetto della lotta dei comunisti della Piana di Gioia Tauro e della provincia di Reggio Calabria contro la mafia. Certo è che quell’assassinio determinò la fine sostanziale del movimento di massa contro la ‘ndrangheta che i comunisti reggini avevano intrapreso e costruito a partire dalla metà degli anni  ’70. Dopo l’assassinio di Peppe Valarioti e quello di Giannino Losardo a Cetraro, avvenuto pochi giorni dopo, la gente aveva paura di esporsi, i comunisti reggini e calabresi erano stati divisi e isolati. Qualcuno di noi continuò a fare resistenza, ma la ‘ndrangheta riprese il sopravvento, e per anni riuscì a realizzare i suoi obiettivi e i suoi corposi interessi. 

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