«La morte di Simona riguarda tutti noi»
Simona ricorda la protagonista di una canzone di De Andrè, “Sally”, che si divincola tra realtà e fantasia e simboleggia la delusione di vedere svaniti i propri sogni. Anche lei soccombe: «dite a mia…

Simona ricorda la protagonista di una canzone di De Andrè, “Sally”, che si divincola tra realtà e fantasia e simboleggia la delusione di vedere svaniti i propri sogni. Anche lei soccombe: «dite a mia madre che non tornerò». Soltanto che la ragazza del cantautore entra «in un bosco scuro» che fa paura e la inghiotte, mentre Simona finisce in un’area pic-nic che non lascia sospettare trappole letali e non riesce neppure a dire ai genitori che non tornerà. Simona Cavallaro, 20 anni, volto candido, sguardo morbido e tanta gioia di vivere, era andata a fare un sopralluogo per una prossima gita con gli amici nelle adiacenze di Monte Fiorino nel territorio del borgo di Satriano. A un salto da Soverato, una delle più rinomate località turistiche di questa parte del Belpaese. Apparentemente una passeggiata tranquilla che improvvisamente s’è trasformata in una giornata da cani. Maremmani e meticci, dieci forse quindici, che le hanno stroncato respiro e vita. Il migliore amico dell’uomo stavolta s’è fatto mostro maledetto. Ma la domanda che molti ci poniamo, consapevoli che nulla di ciò che è umano ci è estraneo («homo sum, humani nihil a me alienum puto» scriveva Publio Terenzio Afro), col cuore in mano e accostandoci con trepidazione all’immenso dolore della famiglia, è la seguente: perché non siamo riusciti ad assicurare a Simona il diritto di muoversi senza imbattersi nella ferocia di quei cani? Un accadimento così terribile, se vogliamo restare umani, comanda di parlare, fare domande, congetture, chiedere anche perché è accaduto. Tutt’altro che tacere. E anche di evitare autoassoluzioni sommarie, sul perché sul luogo del delitto non si rinvengono tracce del nostro passaggio, perché non c’è dubbio che quando un evento di tali drammatiche dimensioni blocca le lancette dell’orologio e traumatizza la quotidianità sociale, anche se non c’eravamo ci coinvolge. Deve coinvolgerci. La triste conclusione della vita di Simona non va derubricata a notizia di cronaca ferale da presto dimenticare e obliterare, né possiamo lasciare che ad occuparsene sia solo la giustizia, che farà il suo corso processando chi avrebbe dovuto custodire il branco e non l’ha fatto o altri eventuali responsabili. Lo sforzo da farsi, convinti che non può finire con Simona uccisa dai cani in un giorno d’agosto che di colpo si tinge d’orrore o con l’invito a non parlarne per difendersi dall’angoscia che scatena un episodio da film dell’horror andato in scena non in una foresta impenetrabile ma a poca distanza da ciò che chiamiamo civiltà occidentale, è di fare domande. Restare svegli con la coscienza libera, vigili. Di dare un senso a questa storia. L’episodio di Satriano può fare venire in mente Jezabile, la biblica regina fenicia sposa del re d’Israele che dopo essere stata scaraventata dalla finestra, come aveva profetizzato Elia, viene data in pasto ai cani. Ma lì c’è l’epopea del popolo ebraico e l’ira del Dio dell’Antico Testamento, con Simona, invece, si è di fronte alla crudeltà di un accadimento che va oltre la fede, la Kantiana ragion pura e ogni altra forma di logica, inclusa quella sbrindellata dei social. E che, per essere tradotta in significati a noi intelligibili che ci permettano di sopportare la straziante fine di Simona, non del silenzio ha bisogno, ma della parola, della discussione e della solidarietà umana che spinge finanche a chiedere perché non siamo riusciti a impedire che una giovane vita fosse interrotta con modalità feroci. E perché nessuno di noi quel giorno era accanto a Simona per aiutarla a mettersi in salvo. Non il silenzio, dunque. Ma l’esigenza di fare domane e avere risposte, anche se le risposte non sono facili e a portata di mano. Se vogliamo restare umani e non farci espugnare dall’indifferenza, lasciando che ogni pulsioni dolorosa gravi solo sulle spalle dei genitori di Simona, alla domanda: perché è stato possibile?, dobbiamo trovare una spiegazione che in qualche modo, benché nelle nostre vite giochino un ruolo cruciale il caso, le variabili indipendenti e la sfortuna, abbia fondamento. Non è facile, ma possiamo provarci, forse indagando criticamente il modo con cui ciascuno di noi (nessuno escluso e in particolare gli amministratori pubblici) assolve alle proprie responsabilità nei riguardi della collettività. Magari provando a mettere almeno in parità la richiesta dei diritti negati (vecchi e nuovi) che giustamente reclamiamo non di rado con eccesso di zelo, con la sfilza dei doveri nei confronti della società che vanno esercitati, per rendere migliori se stessi e gli altri, con meno approssimazione, certamente non eludendoli o nell’ipotesi migliore attenuandoli. O ricordandosene soltanto di fronte alle tragedie.