LOCRI A distanza di ottocentoquarantadue giorni dall’inizio del dibattimento, la Corte presieduta dal giudice Fulvio Accurso ha dato lettura del dispositivo della sentenza di primo grado nel processo “Xenia”, nato da un’indagine della procura di Locri e della Guardia di finanza. Domenico Lucano, principale imputato, è stato condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione a fronte della richiesta dell’accusa di 7 anni e 11 mesi. L’ex sindaco di Riace era accusato insieme ad altre 26 persone, a vario titolo, di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa aggravata, turbativa d’asta, concussione oltre che favoreggiamento dell’immigrazione clandestina finalizzato ad attrarre un illecito profitto derivante dalla gestione dei progetti legati all’accoglienza dei migranti.
Tra le altre posizioni spicca quella della compagna, Lemlem Tesfhun condannata a 4 anni 10 mesi di reclusione. Per lei l’accusa aveva chiesto 4 anni e 4 mesi.
C’è poi Fernando Antonio Capone, rappresentante legale dell’associazione “Città Futura”, che a Riace gestiva i progetti dell’accoglienza. Per lui la condanna ammonta a 9 anni e 10 mesi di reclusione. Nella ricostruzione dell’accusa, che aveva chiesto 7 anni e 5 mesi, Capone figurava come «testa di legno eterodiretta da Lucano» vero «“dominus” di fatto» della compagine. Altro nome è quello di Cosimina Ierinò, a fronte del suo doppio ruolo di responsabile operativo del progetto Sprar e della banca dati, definita «lo strumento amministrativo della volontà di Lucano» per la quale erano stati chiesti 4 anni e 10 mesi. Di 8 anni e 10 mesi è la pronuncia nei suoi confronti.
Dall’unione dei puntini disseminati nelle condotte presunte illecite dei diversi indagati e dal racconto dei testimoni – soprattutto della difesa – nelle udienze dibattimentali è emerso il ritratto del “modello” Riace imperniato su quel sistema di accoglienza diffusa cresciuto oltre ogni aspettativa. Imperfetto, ma funzionante.
In tal senso, il procuratore capo Luigi D’Alessio, nell’introdurre le richieste di condanna, aveva tenuto a sottolineare che il processo celebrato tra le panche della città della Locride non era né politico, né rivolto a contrastare «il nobile ideale dell’accoglienza», ma solo ad accertare l’eventuale illiceità delle condotte degli imputati. Pene severe, per la maggior parte aumentate rispetto alle richieste dell’accusa. Si attenderanno ora i 90 giorni di rito per conoscere le motivazioni alla base della pronuncia dei giudici di Locri.
La condanna richiesta dall’accusa per Lucano era frutto del computo di 15 capi d’imputazione, molti dei quali vaccilanti già in sede cautelare. La pronuncia di Locri dice qualcosa di diverso rispetto alle aspettative. Lucano viene condannato in concorso con una serie di altri imputati per associazione a delinquere e per una serie di reati-fine tra cui: abuso d’ufficio, truffa aggravata (con riferimento alla gestione dei progetti per l’accoglienza), falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale, peculato, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, abuso d’ufficio relativo all’affidamento (diretto) del servizio di raccolta differenziata ad alcune cooperative del luogo. Viene altresì assolto per i reati di concussione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per falsità commesse mediante il rilascio di documenti d’identità a non aventi diritto. Con riferimento alla truffa aggravata e all’abuso d’ufficio, nella ricostruzione della Corte non tutte le accuse (e rispettivi capi d’imputazione sono risultate fondate). Estinto per prescrizione il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.
La Corte ha poi disposto una confisca di beni pari a oltre 700mila euro nei confronti di Lucano, Capone e Ierinò. Lucano viene inoltre condannato al versamento di somme superiori ai 531mila euro a titolo risarcitorio e di 200mila euro nei confronti del Viminale costituitosi parte civile (la richiesta del ministero era stata di 10 milioni di cui 2 di provvisionale).
Dalla prima pagina all’esilio. A novembre del 2017 Domenico Lucano riceve un avviso di garanzia. La notizia è quella di un fascicolo di indagine aperto dalla procura di Locri e basato su accertamenti avviati dalla Guardia di finanza a fronte di una denuncia-querela ricevuta in quel periodo. Così ribadito nella ricostruzione dibattimentale del pubblico ministero Michele Permumian, che indica nell’azione di Francesco Ruga, il momento iniziale del procedimento. Il commerciante riacese «aveva rapporti di credito con “Città Futura”» e si diceva «stremato dalle richieste di Capone e Lucano». Nel prosieguo proprio Ruga diventerà il “teste chiave” dell’accusa salvo poi essere bollato come «inattendibile» dalla Corte a fronte di plurime contraddizioni e dell’«evidente atteggiamento d’astio» nei confronti dell’allora sindaco (che lo aveva denunciato dopo aver ricevuto una serie di messaggi molesti).
«È un furbetto, non una vittima» hanno detto di Ruga i difensori di Lucano, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, durante la loro arringa. Complessa, nella fase preliminare, è anche la posizione della prefettura di Reggio Calabria. Da un lato la relazione “negativa” divenuta ulteriore atto d’impulso – nelle parole del procuratore capo D’Alessio – dell’azione della procura, dall’altra, quella “positiva” stilata da Francesco Campolo «che ha dimostrato (parlando di Riace come di un’eccellenza da tutelare, ndr) che si può essere liberi di fare cose che il tuo superiore non vuole».
«È normale – ha chiosato nella sua arringa in dibattimento l’avvocato Andrea Daqua – che la prefettura che fino a quel momento applaude e si serve del modello Riace, si costituisce parte civile?»
Il 2 ottobre 2018, scatta l’operazione “Xenia”. Il gip Domenico Di Croce firma l’ordinanza di custodia cautelare che raggiunge diversi indagati tra i quali l’allora sindaco del “borgo dell’accoglienza”, che finisce ai domiciliari e la compagna Tesfahun Lemlem raggiunta dal “divieto di dimora”.
Del quadro accusatorio nei confronti di Lucano, il gip “salva” solo due ipotesi di reato: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina con riferimento all’organizzazione di presunti «matrimoni di comodo» e irregolarità nell’affidamento (diretto) del servizio di raccolta differenziata a due cooperative del luogo, “L’Aquilone” ed “Ecoriace”. Gli altri capi vengono in parte stroncati dal giudice, com’è il caso degli illeciti contestati sui progetti relativi all’accoglienza, tanto «vaghi e generici» da rendere il capo «inidoneo a rappresentare una contestazione».
Il successivo 16 ottobre, il Tribunale del Riesame revoca gli arresti domiciliari nei confronti di Lucano ed applica la misura del divieto di dimora. Inizia così «l’esilio da Riace» che durerà fino al 5 settembre 2019. Nel mezzo, a febbraio, la Cassazione annulla con rinvio l’ordinanza del Tribunale per le Libertà. A Riace – scrive il giudice di legittimità – Lucano «non ha compiuto alcuna irregolarità nell’assegnazione degli appalti» né ci sono elementi per dire che abbia favorito presunti «matrimoni di comodo». Nonostante la pronuncia della Suprema Corte e le indagini ormai chiuse, il successivo mese di aprile, il Riesame, nonostante le ulteriori censure mosse al quadro accusatorio, conferma la sua linea ribadendo il “divieto di dimora” nei confronti di Lucano che, candidato al consiglio comunale nella lista “Il cielo sopra Riace” (candidato sindaco Maria Spanò) è costretto a seguire a distanza la campagna elettorale che porterà alla vittoria della lista a trazione leghista “Riace rinasce” capeggiata da Antonio Trifoli, oggi sindaco in carica benché decaduto a fronte della sua ineleggibilità.
Qualche giorno prima della pronuncia del Riesame, sulla richiesta di rinvio a giudizio della procura si era già pronunciato il gup che aveva individuato il successivo 11 giugno 2019 come giorno della prima udienza.
Nella requisitoria pronunciata lo scorso 18 maggio, i pm Permumian e Currao avevano in parte modificato l’impianto basandolo sul «movente politico» e sulla “mala gestio” alla base dei tre progetti di accoglienza attivi a Riace (Sprar, Cas e Msna). Nelle parole dell’accusa, Lucano torna ad essere «”dominus” assoluto all’interno del Comune» oltre che «soggetto sciolto dalla legge» che avrebbe organizzato il “modello” per «tornaconto politico-elettorale» fino a creare un’associazione a delinquere «di carattere stabile, dotata di una serie di ingranaggi che a un certo punto si rompono mettendo in crisi il sistema».
L’accusa, soffermandosi sulla gestione dei progetti fatta a Riace ha così parlato di «schemi illeciti per massimizzare la percezione di fondi pubblici».
«Credo che Mimmo Lucano sia un uomo che ha messo la propria vita a disposizione della società». Con queste parole, l’avvocato Giuliano Pisapia ha iniziato il suo intervento difensivo – concluso con la richiesta di assoluzione piena – lo scorso 25 settembre. «Oltre allo stipendio da sindaco, vive con i soldi di suo padre e mette a disposizione i proventi dei premi». Gli avvocati avevano tenuto a sottolineare la mancanza di «predisposizione alla commissione di reati» del loro assistito, quindi della «responsabilità, possibilità e volontà» di commettere illeciti nella gestione dei progetti atteso che spesso il sindaco, per condizioni di necessità – anche indotte dalle richieste della prefettura – si era trovato a svolgere mansioni non sue.
«Noi – aveva concluso l’avvocato Daqua che dopo la sentenza non ha voluto rilasciare dichiarazioni – non abbiamo mai parlato di processo politico e ci siamo sempre attenuti al dato istruttorio. Come diceva il professore Mazzone, a noi interessa che non si faccia politica nel processo». Lo sfondo politico è inevitabile nel processo che volente o nolente ha influito sulle vicende legale al piccolo borgo della Locride ripopolato grazie all’accoglienza e all’integrazione dei migranti. Nell’ultima udienza istruttoria l’accusa aveva chiesto l’acquisizione di un articolo dove Lucano annunciava la sua candidatura alle elezioni regionali a sostegno di de Magistris. Richiesta censurata dal presidente Accurso perché ritenuta inattendibile.
Al di là dell’aspetto meramente tecnico legato alle condotte, la bilancia pende tra la ricostruzione accusatoria secondo cui Lucano avrebbe agito per interesse politico-clientelare e quella della difesa, per cui il sindaco di Riace credeva in quello che faceva a prescindere da qualsiasi tornaconto. Vale la pena ricordare una serie di momenti come le testimonianze di padre Alex Zanotelli, del professor Tonino Perna e dell’attuale vescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini per il quale «i migranti erano energia vitale per Riace» e, con il suo agire, Lucano «aveva anticipato il senso dell’Enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”».
Domenico Lucano 13 anno e 2 mesi (chiesti 7 anni e 11 mesi)
Fernando Antonio Capone 9 anni e 10 mesi (chiesti 7 anni e 5 mesi)
Cosimina Ierinò 8 anni e 10 mesi (chiesti 4 anni e 10 mesi)
Abeba Abraha Gebremarian 4 anni (chiesti dall’accusa 4 anni e 1 mese)
Giuseppe “Luca” Ammendolia 3 anni e 6 mesi (chiesti 3 anni e 2 mesi)
Assan Balde 1 anno (chiesti 2 anni)
Oberdan Pietro Curiale 6 anni (chiesti 4 anni e 2 mesi)
Oumar Keita 1 anno (chiesti 2 anni)
Cosimo Damiano Musuraca 1 anni (chiesti 2 anni)
Gianfranco Musuraca 4 anni (chiesti 4 anni e un mese)
Salvatore Romeo 6 anni (chiesti 4 anni e 3 mesi)
Maurizio Senese 1 anno (chiesto 1 anno)
Maria Taverniti 6 anni e 8 mesi (chiesti 3 anni)
Lemlem Tesfahun 4 anni e 10 mesi (chiesti 4 anni e 4 mesi)
Fimon Tesfalem 1 anno (chiesti 2 anni)
Jerri Cosimo Ilario Tornese 6 anni (chiesti 4 anni e 2 mesi)
Annamaria Maiolo 6 anni (chiesti 4 anni e 3 mesi)
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