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il reportage

La crisi del settore agricolo e il “limbo” dei braccianti. «Vorrei solo una casa, qui non si può vivere» – VIDEO

Nella Piana, i migranti cercano lavoro in altri comparti. Logiacco (Cgil): «Lavoro e dignità non possono essere disgiunti». Napoli (Valle del Marro): «La filiera va riformata». La storia di Joseph

Pubblicato il: 13/03/2022 – 13:16
di Francesco Donnici
La crisi del settore agricolo e il “limbo” dei braccianti. «Vorrei solo una casa, qui non si può vivere» – VIDEO

ROSARNO Volere è potere. Principio cardine quando si parla di accoglienza, come stanno dimostrando le ricadute internazionali provocate dal conflitto russo-ucraino.
La Regione Calabria – come affermato dallo stesso governatore Occhiuto nel commentare l’Azione di Coesione per i Rifugiati in Europa (Care) adottata dalla Commissione europea in questi giorni – è stata «proattiva», anticipando «il comune sentire europeo».
L’altra “accoglienza” rimane però quella degli insediamenti della Piana di Gioia Tauro dove “simbolo” è la baraccopoli di San Ferdinando. In questo caso c’è per ora la volontà palesata di procedere a un nuovo sgombero e spostare gli stanziali nelle foresterie stagionali che dovrebbero sorgere nei locali dell’ex opificio “Opera Sila”. Si tratta qui di un’emergenza divenuta ormai cronica, da anni scivolata in fondo alle agende. In questo quadro, reso ancora più instabile dal conflitto in atto, continua una stagione agrumicola un po’ diversa dalle altre dove la somma delle emergenze si riversa su un settore più in crisi rispetto agli anni precedenti.

Il reportage. Capitolo III, vita da braccianti

La crisi del settore agricolo e il flusso degli stanziali verso altri comparti

Negli ultimi anni il numero di migranti nella Piana di Gioia Tauro è andato progressivamente diminuendo. Un dato che è causa ed effetto, oltre che della pandemia, della crisi dell’agrumicoltura che sta investendo (non solo) la zona. I migranti che popolano gli insediamenti formali e informali si dividono tra raccoglitori stagionali, che cambiano zona e regione a seconda del periodo, e quelli che negli anni hanno deciso di rimanere reinventandosi in altri settori diversi dall’agricoltura negli altri periodi dell’anno. Un aspetto, quest’ultimo, che ancor più trova opposizione in una legislazione frastagliata e sfavorevole soprattutto per chi cerca di stabilizzarsi nella zona come lavoratore regolare. «Lavoro e accoglienza sono due facce della stessa medaglia, non possono essere trattate in forma disgiunta. Intervenire sull’accoglienza significa creare migliori condizioni di vita, ma anche garantire sicurezza a queste persone». In questo inciso di Celeste Logiacco, segretario Cgil della Piana di Gioia Tauro sta la matrice (e viceversa la soluzione) del problema. Per volere o necessità, chi arriva a cercare lavoro nella Piana non si vincola più soltanto al settore agricolo. «Questo aspetto sta cambiando rispetto al passato», continua la sindacalista.

Celeste Logiacco insieme a uno degli stanziali del Campo container di Rosarno

In Cgil dal lontano 2006, ha vissuto da vicino – così come altri coi quali ha condiviso il percorso in questi anni – le diverse fasi del prima, durante e dopo la rivolta del 2010. Soprattutto il dopo. Nel 2017 viene eletta segretaria generale della Piana portandosi dietro il bagaglio acquisito durante gli anni dell’attività del sindacato di strada. «Fare “sindacato di strada” vuol dire garantire diritti e tutele soprattutto in un territorio come la Piana di Gioia Tauro dove si vive di diritti negati». Da qui la scelta di spostare il sindacato dalle sedi formali per andare sui territori.
«Nel corso degli anni l’offerta di lavoro in agricoltura è calata. – dice dal suo osservatorio – Con la nostra attività di sportello abbiamo potuto contare diversi contratti stipulati nel settore dell’edilizia o del commercio», che spesso fanno riferimento diretto all’area e alle aziende che gravitano intorno al porto, principale infrastruttura della zona e forse della regione.

Vulnerabilità è ricattabilità

Rosarno, campo container “contrada Testa dell’acqua”

La stipula dei contratti di lavoro non può prescindere dalla regolarità dei permessi di soggiorno, anche se spesso i lavoratori vengono schiacciati dallo schema burocratico-legislativo in materia di diritti di cittadinanza. «Un lavoratore senza permesso di soggiorno è ricattabile e costretto ad accettare qualsiasi condizione di lavoro e pseudoregole che nulla hanno a che fare col rispetto dei contratti e la dignità della persona», dice Logiacco.
Queste difficoltà hanno nutrito negli anni il “nero” e il “grigio” che caratterizzano soprattutto il settore agricolo. In due delle più recenti (riferite ai periodi d’indagine tra il 2018 e il 2020) inchieste rispettivamente della Dda di Reggio Calabria e della procura di Castrovillari si è fatto accenno ad alcune intercettazioni dove i così detti “caporali” e gli imprenditori agricoli conniventi si riferiscono ai braccianti come «scimmie» alle quali riservare una paga di 80 centesimi a cassetta di arance raccolte, per un massimo giornaliero che varia dalle 10 alle 25 euro per almeno 8-10 ore di lavoro. «La legge 199 del 2016 (in materia di contrasto al lavoro nero e al caporalato, ndr) è stato un grande risultato voluto anche da noi – continua la sindacalista – ma mentre la parte repressiva sta dando continuamente risultati ciò che ancora deve prendere corpo è la parte preventiva» necessaria a evitare che la “concorrenza sleale” creata dal sistema illecito vada ad intaccare – come succede – anche l’operatività delle imprese sane. 

Il fallimento delle “regolarizzazioni”

Bracciante agricolo della cooperativa “Valle del Marro”. Gioia Tauro, agrumeto sorto su un terreno confiscato ai “Molè”

Durante il lockdown le organizzazioni di categoria avevano denunciato la carenza di manodopera nel settore agricolo. La crescente paura dei contagi sommata alle condizioni di lavoro inumane e le restrizioni negli spostamenti hanno funto da deterrente soprattutto per i lavoratori irregolari o da anni in attesa di regolarizzazione. Emblematica la scelta del governo – e le lacrime dell’allora ministro Teresa Bellanova – di “regolarizzare” a tempo alcune tipologie di lavoratori tra cui braccianti agricoli e colf, «che non ha tenuto conto di tutti i migranti che in questi anni si stanno spostando a lavorare in altri settori». Nella Piana, è ormai noto, anche a fronte del periodo di attuazione – non concomitante con quello della raccolta agricola – la norma non ha avuto molta fortuna. Per l’emersione di rapporti di lavoro subordinato sono state presentate 1.550 domande in tutta la Calabria di cui solo 214 – numero inferiore a quello degli stanziali della tendopoli in questo periodo – nella provincia di Reggio. Inoltre, da un’indagine interna alle aziende, diverse istanze presentate al tempo non risultano ancora processate. 

Il racconto di Joseph

Rosarno, campo container di contrada “testa dell’acqua”

Il campo container di contrada “Testa dell’acqua” si trova nella zona industriale di Rosarno, non lontano dall’area dell’ex tendopoli. Creato in seguito ai fatti del 2010, è abitato oggi da circa 200 migranti, tutti uomini. «Due o tre anni fa – dice Logiacco – si svuotava completamente nei periodi diversi da quello della raccolta», mentre oggi si incontrano residenti che vivono qui durante tutto l’anno. Tra questi Joseph, orinario del Ghana, sulla sessantina. Una profonda cicatrice nella parte inferiore della schiena gli impedisce dal 2017 il normale uso delle gambe. Lui è uno dei tanti, sovrastati dal lavoro in agricoltura e bloccati nel “limbo” degli insediamenti.

Nelle prime ore del mattino le persone rimaste nel campo si contano sulla punta delle dita. Mentre i suoi coinquilini sono a lavoro nelle campagne ci invita a visitare il container. «Qui viviamo in sei», dice. Lo spazio sarebbe riservato a non più di tre persone. Le condizioni igieniche e di vita sono approssimative. Ai piedi del letto ha una stufetta e una radiolina che parla il dialetto della sua terra. Ci sono sia la luce che l’acqua, «ma guarda com’è sporco», dice indicando il piatto doccia marrone di terra. «Sono arrivato qui sei anni fa, da Udine». Per trovare una vita migliore. «Volevo guadagnare per portare qui la mia famiglia, ma ora non posso lavorare e mi sento inutile». Insieme a lui il fratello, che lo aiuta economicamente. In Ghana la moglie e tre figlie. La maggiore ha poco più di trent’anni. «La mia idea era di andare a trovarle in Africa e magari portarle qui con me, ma per farle stare in un appartamento». Dopo l’infortunio diverse peripezie, difficoltà nel rinnovo del permesso di soggiorno quindi impossibilità di stipulare contratti di lavoro o d’affitto. «Quando potevo muovermi andavo a Rosarno, in città si stava bene, non come in questo container.Io dovrei portare mia moglie qui? Certo che no». Ci parla della vita prima dell’infortunio. «In questo periodo si lavorava dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio». Le uniche parole che pronuncia in italiano sono “arance, mandarini, zappa, campagna”. «Ogni mattina non sai se lavorerai, devi uscire e vedere se qualcuno ha bisogno di te. Se ci sono le arance c’è lavoro, quando non ci sono può capitare di lavorare qualche giorno e molti altri no». Dopo l’infortunio nessuno gli ha prospettato la possibilità di dedicarsi ad altre attività che non prevedano lo sforzo fisico. «Vorrei solo una casa, potete vedere coi vostri occhi che qui non si può vivere. Ma abbiamo bisogno d’aiuto per andarcene».

L’appello della “Valle del Marro”: «La burocrazia non si concilia coi tempi dell’agricoltura»

Antonio Napoli in un agrumeto della cooperativa “Valle del Marro”

A fine 2021, alle porte della stagione agrumicola, a lanciare l’allarme sulla carenza di manodopera era stata una delle cooperative della Piana. La “Valle del Marro” è una delle realtà del consorzio “Libera Terra” e opera sui beni confiscati alla ‘ndrangheta grazie al riutilizzo sociale reso possibile dalla legge di iniziativa popolare 109 del 1996. A raccontare la situazione del comparto al Corriere della Calabria è Antonio Napoli, che descrive la carenza «generalizzata» di manodopera in tutta la filiera, dal raccolto fino alla distribuzione e alla consegna. La carenza di personale è legata a doppio filo al calo produttivo. «Quest’anno si stima una riduzione del raccolto agrumicolo del 30-40% rispetto agli anni precedenti».
La necessità è quella di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per le realtà virtuose. «Potrebbero essere create anche delle piattaforme istituzionali apposite: spesso sono i dipendenti a presentarsi in azienda chiedendo di essere assunti, ma sarebbe importante avere un luogo pubblico dove candidarsi e ricevere risposta dall’azienda». Inoltre va sottolineato come il comparto agricolo si regga «per lo più sull’assunzione di manodopera straniera» e per questo si renderebbe necessario «intervenire agevolando le procedure di ingresso e permesso di soggiorno». Molti lavoratori «ancora oggi si perdono nei meandri della burocrazia e questo non aiuta la continuità del lavoro sano nell’agricoltura». La pandemia non ha agevolato questi aspetti: «Quest’anno abbiamo notato un calo anche nelle presenze dei migranti. Diversi di quelli che lavoravano con noi sono tornati nel loro paese e non hanno avuto possibilità di ritornare per mancanza dei documenti o restrizioni in atto. Altri hanno attivato i nuovi permessi di soggiorno per lavoro stagionale, ma bisogna superare questa burocrazia esasperata che non si concilia coi tempi programmatici dell’agricoltura».

Ripensare la filiera

Gioia Tauro, agrumeto della cooperativa “Valle del Marro” sorto su terreno confiscato ai “Molè”

A Gioia Tauro la “Valle del Marro” ha diversi campi per la raccolta degli agrumi. Durante la stagione lavorano 30-40 addetti complessivi di cui 10 con contratto a tempo indeterminato. Quello visitato è stato confiscato alla potente “famiglia” Molè, egemone nel “capoluogo” della Piana in coabitazione coi “Piromalli”. «Noi – dice il socio della “Valle del Marro” – operiamo sui beni confiscati in un territorio dove le dinamiche mafiose persistono e condizionano il mondo dell’impresa e delle istituzioni. Le mafie si sono evolute ed hanno cambiato aspetto per confondersi in tutti i settori economici». «La nostra esperienza è quella di una filiera etica», sottolinea Napoli, che si sofferma sul problema chiave: «È necessaria una riforma di questo comparto. I nostri partner sono anch’essi etici e partono dunque da una politica di tutela della dignità del lavoratore. La politica dei prezzi ribassati va a comprimere i diritti del lavoratore, per questo il messaggio deve essere che il frutto del lavoro deve avere un prezzo equo». Dall’altro lato c’è la “grande distribuzione”, che inibisce la crescita del mercato e la tutela dei lavoratori. Un aspetto evidenziato anche nel Quaderno Zero del Collettivo Valarioti: «Il connubio “grande distribuzione organizzata – ’ndrangheta” – si legge – grava sui produttori, e la conseguente schiavitù dei e delle braccianti, rivela che, malgrado la scarsa profittabilità del settore sul territorio, l’agrumicoltura può generare ancora oggi ricchezza per la Piana, se si redistribuisce diversamente quanto oggi è nelle sole mani dei colossi del commercio e, soprattutto, se si scardinano le ingerenze criminali». (redazione@corrierecal.it)

Vedi tutti gli episodi

Capitolo I. San Ferdinando, il ciclo perpetuo di tragedie e baraccopoli
Capitolo II. Rosarno, dodici anni dopo la rivolta: dalla caccia ai migranti all’esilio
Capitolo III. La crisi del settore agricolo e limbo dei braccianti nella Piana di Gioia Tauro

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