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Sanità, la tecnologia che complica il lavoro. «Cinque software che non comunicano tra loro»

I pasticci delle app e la speranza nella digitalizzazione. Mentre i pazienti si rivolgono al «santo dei miracoli» in attesa di un esame

Pubblicato il: 04/05/2022 – 7:14
di Emiliano Morrone
Sanità, la tecnologia che complica il lavoro. «Cinque software che non comunicano tra loro»

CROTONE «Uno è della Radiologia, l’altro riguarda solo il Pronto Soccorso. Poi ci sono il programma del Laboratorio analisi, quello del Cup e il nostro di reparto. Si tratta di applicazioni che funzionano in maniera differente e non comunicano tra di loro. Ho cinque password diverse, una per ogni software, e a relazionare sul singolo paziente impiego 20 minuti di computer». A volte la tecnologia può complicare il lavoro, specie quando «ti combina un pasticcio del genere, come puoi vedere in questi fogli con le informazioni ammucchiate: anagrafica, esami eseguiti, diagnosi e terapia».
Siamo all’ospedale di Crotone, il Pronto soccorso è affollato, qualcuno lamenta sintomi da Covid. Si fanno i tamponi rapidi, poi i pazienti si sparpagliano in base agli accertamenti, ai consulti richiesti. Sembrano passati decenni dalla tenda per il triage: il ritorno alla normalità è impresso nei movimenti disordinati, quasi casuali, all’entrata e lungo i rumorosi corridoi del piano terra. Il nostro interlocutore è un medico di lungo corso: volenteroso, aggiornato, critico. Ci illustra la situazione nel reparto in cui lavora, ma non vuole esporsi con il nome, altrimenti subirebbe un procedimento disciplinare per aver dato informazioni e riferito il proprio punto di vista all’esterno. «Come ne usciamo? Vedi con i tuoi occhi. È mai possibile – si sfoga – che ci siano procedure così macchinose per inquadrare i pazienti? Non potrebbe esserci un unico programma? Guarda, apro questo del Pronto soccorso, che non si interfaccia con quello della Radiologia né con quello del Laboratorio analisi. Se c’è un’emergenza, devi passare da un’applicazione all’altra e qualcosa si può persino bloccare; questa è della Regione, questa è invece aziendale, i fornitori non sono uguali. Quanto potremmo migliorare con un solo software capace di gestire insieme tutti i dati, i percorsi e le procedure?».
Eppure, in Conferenza Stato-Regioni il ministro per l’Innovazione tecnologica, Vittorio Colao, ha già assicurato che «la digitalizzazione della sanità sta avvenendo adesso ed è un’opportunità perché l’Italia sia tra i Paesi di testa». Nel Pnrr ci sono circa 2,5 miliardi per la sanità digitale: 1,3 miliardi per un’unica infrastruttura dati che raccolga la storia clinica degli assistiti di ogni provenienza e un miliardo per l’attivazione della telemedicina. «Speriamo bene, ma per il momento – osserva il “nostro” medico – dobbiamo fare i conti con gli strumenti disponibili, che purtroppo appesantiscono gli aspetti burocratici, come puoi osservare con i tuoi occhi. Già da subito, prima che qui inizi la digitalizzazione di Colao, con poche risorse si potrebbe realizzare un programma unico di gestione dei pazienti che vengono in ospedale e in tutti i presìdi della Calabria. Ne deriverebbero una diminuzione dei costi, una riduzione dei problemi e un’accelerazione dei tempi di intervento». 
Sopraggiunge un’anziana signora e la discussione si ferma. La donna lamenta pressione alta come tratto distintivo, precisa d’aver superato Covid e influenza stagionale «grazie alla verdura» che mangia «di gusto». «Prendo molti farmaci, più di venti al giorno», confida senza imbarazzo; anzi, con evidente bisogno di parlare, nonostante la mascherina che le «disturba il respiro» e la «rende nervosa». La paziente aspetta un emocromo, quindi non ha fretta e da calabrese verace si affida all’inventiva e alle considerazioni in libertà. Racconta di un suo parente che a Bergamo ha concluso la terapia contro l’epatite C presso l’ospedale pubblico, dedicato a Papa Giovanni XXIII e, chiarisce, organizzato con i computer: senza file interminabili, attese estenuanti e pesi per i malati. La signora ritiene che gli ospedali della Calabria dovrebbero essere intitolati a san Francesco di Paola, «‘u santu di miraculi» e che dovrebbero essere diretti da giovani calabresi laureati «capariertu», cioè al Nord. 
Ero venuto all’ospedale di Crotone per conoscere la dotazione informatica nei reparti. La mia visita è diventata altro, perfino con spunti di antropologia comparata. Nell’immaginario collettivo il Settentrione è razionalità, efficienza, ordine, servizi pubblici funzionanti, garanzia di buona sanità. Il Sud è piuttosto avventura, sorpresa, ambiente che forma una straordinaria capacità di adattamento.
Intanto sono arrivati i risultati delle analisi della signora, che può stare tranquilla e tornare a casa. Oltre che sulle pillole, la donna può contare sulla sua pazienza e su uno spirito polemico temperato da un grande senso di realtà e da una fede, da una devozione radicata. Il “nostro” dottore la guarda, sorride, ricorda d’aver lavorato «da giovane in Alta Italia» e dà ragione alla signora. «È come dite voi», rimarca con formula meridionale, aggiungendo che la Calabria è anche «emergenza perpetua, bisogno continuo, limite mobile per chi combatte nella sanità, spesso senza armi sufficienti, magari incompreso». «E con programmi, con pc che ti portano la testa in ebollizione, ti gonfiano il fegato, prima che il paziente di turno – conclude – ti strappi un sorriso, oppure una lacrima, con la sua umanità, la sua fantasia, la sua resistenza inossidabile». (redazione@corrierecal.it)

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