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le motivazioni

Corruzione di un giudice, il gup: «Il coinvolgimento di Veneto è un fiume carsico»

Le intercettazioni in carcere, le dichiarazioni del pentito Pisani, le “mitigazioni” dell’avvocato Minasi, le parole del genero di Rocco Bellocco

Pubblicato il: 31/05/2022 – 7:36
di Alessia Truzzolillo
Corruzione di un giudice, il gup: «Il coinvolgimento di Veneto è un fiume carsico»

CATANZARO Il 25 febbraio scorso l’avvocato, ed ex europarlamentare, Armando Veneto è stato condannato in primo grado, con rito abbreviato, a 6 anni di reclusione per i reati di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso, e concorso estero in associazione mafiosa. L’accusa è quella di avere fatto da mediatore, nell’estate del 2009, tra la cosca Bellocco e il giudice del Riesame di Reggio Calabria Giancarlo Giusti, per fare scarcerare tre indagati per associazione mafiosa che avrebbero elargito al magistrato 40mila euro ciascuno.
Il gup Matteo Ferrante motiva la sentenza affermando che il coinvolgimento di Veneto nella vicenda «è un fiume carsico ciclicamente affiorato e ri-affiorato nel progressivo sviluppo delle indagini. Armando Veneto è stato, infatti, a più riprese, indicato da soggetti coinvolti, o comunque pienamente a conoscenza dell’accordo corruttivo, come colui che era intervenuto presso il giudice Giusti per il buon esito del riesame».

La vicenda

La vicenda, in sintesi, è questa: a luglio 2009 vengono fermati alcuni componenti del clan Bellocco di Rosarno e altri membri della cosca che si trova in Emilia Romagna. Alcuni degli arrestati propongono ricorso al Tribunale del Riesame di Reggio Calabria e vengono scarcerati. Ma indagini della Dda di Catanzaro rivelano che vi sarebbe stato un accordo corruttivo tra alcuni componenti del clan Bellocco e altri considerati concorrenti esterni, per avvicinare un giudice del Riesame e stipulare con lui un accordo corruttivo: la dazione di 120mila euro in cambio della scarcerazione di tre indagati (che avrebbero pagato 40mila euro ciascuno). Il giudice in questione è il defunto Giancarlo Giusti, suicida mentre si trovava ristretto agli arresti domiciliari nell’ambito dell’operazione denominata “Abbraccio” che riguardava il magistrato e alcuni componenti della cosca Bellocco.
Questa vicenda è costituisce il secondo filone scaturito proprio dall’inchiesta “Abbraccio” e contempla l’accusa di corruzione in atti giudiziari, aggravata dal metodo mafioso e concorso esterno in associazione mafiosa contestato all’avvocato – politico, presidente del consiglio delle Camere penali italiane ed ex europarlamentare – Armando Veneto, a Vincenzo Albanese, Giuseppe Consiglio e Rosario Marcellino, mentre Domenico Bellocco detto “micu u longu” è accusato del solo capo di corruzione in atti giudiziari aggravata.
Il processo si è svolto con rito abbreviato e il 25 febbraio scorso il gup Matteo Ferrante ha condannato il penalista ed ex politico Armando Veneto a 6 anni di reclusione sia per il concorso esterno che per la corruzione in atti giudiziari.
Sei anni sono stati comminati all’avvocato Armando Veneto per entrambe le accuse; sei anni a Domenico Bellocco; condannato per entrambe le accuse a 6 anni di reclusione Giuseppe Consiglio. Vincenzo Albanese è stato condannato a due anni per la corruzione mentre per il concorso esterno gli atti sono stati restituiti al pubblico ministero in seguito al fatto che Albanese – nelle more divenuto collaboratore di giustizia – a settembre 2021 ha dichiarato di essere stato affiliato alla ‘ndrangheta nel 2010, nel carcere di Cosenza, e che lui e il cognato Rosario Marcellino hanno commesso diversi reati per la cosca Bellocco; Rosario Marcellino è stato condannato a quattro anni per la corruzione ed è stata disposta la restituzione degli atti al pm per il concorso esterno. Per Albanese e Marcellino si profila l’ipotesi di associazione mafiosa. «In tale contesto – scrive il gup –, s’impone la restituzione degli atti al pubblico ministero, stante l’acclarata diversità tra i fatti, così come accertati e ricostruiti nel corso del presente giudizio, e quelli descritti nel capo d’imputazione».

Gli avvenimenti e i protagonisti

Il 22 luglio 2009 le Dda di Reggio Calabria e Bologna hanno emesso due distinti provvedimenti di fermo con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti di Domenico Bellocco, alias “micu u longu”, 45 anni; Rocco Bellocco, Umberto Bellocco (la Procura di Reggio), e Domenico Bellocco, 42 anni; Rocco Gaetano Gallo e Maria Teresa D’Agostino (la Procura di Bologna).
In seguito la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna declina la propria competenza in favore dell’autorità giudiziaria di Reggio Calabria, vista l’unicità della compagine criminosa.
Il 10 agosto il Tribunale di Reggio Calabria conferma le misure cautelari. Alcuni degli arrestati fanno ricorso al Tribunale del Riesame per chiedere la scarcerazione. Si tratta di Rocco Gallo (difeso da Armando Veneto), Domenico Bellocco detto “micu u longu”, Rocco Bellocco e Maria Teresa D’Agostino.
I ricorsi vengono trattati all’udienza del 27 agosto 2009 dal Tribunale della libertà in composizione feriale, composto dai magistrati Patrizia Morabito (presidente), Alessandra Ferraro (giudice a latere) e Giancarlo Giusti (relatore ed estensore dei provvedimenti).I riesami di Gallo Rocco Gaetano, Bellocco Domenico, Bellocco Rocco e D’Agostino Maria Teresa vengono trattati all’udienza del 27 agosto 2009. Quello stesso giorno il Riesame rimette in libertà Rocco Gallo, Domenico Bellocco detto “micu u longu” e  Rocco Bellocco per ritenuta assenza di gravità indiziaria riguardo al reato di associazione mafiosa.
Resta in carcere Maria Teresa D’Agostino a causa dell’ulteriore contestazione di porto abusivo d’arma. La Procura di Reggio Calabria fa ricorso in Cassazione e la Suprema Corte annulla con rinvio la decisione del Riesame di scarcerare i tre indagati. Il 16 settembre 2010, il Tribunale del Riesame, in diversa composizione, giudicando in sede di rinvio, ripristina la custodia cautelare in carcere nei confronti di tutti e tre gli indagati. Il provvedimento diventa esecutivo a marzo 2012, quando la Cassazione rigetta il ricorso delle difese degli indagati che tornarono in carcere, tranne Rocco Gallo che venne arrestato il 28 aprile 2012 dopo una breve latitanza.

Le pesanti dichiarazioni dell’avvocato pentito

A fare dichiarazioni importanti sull’avvocato Armando Veneto è un collaboratore di giustizia che proviene dal mondo dell’avvocatura: Vittorio Pisani il quale ha svolto, in passato, la professione di avvocato, venendo successivamente tratto in arresto in relazione alla morte di Maria Concetta Cacciola. Pisani rende il suo primo interrogatorio l’8 settembre 2014 e già nel secondo interrogatorio comincia a parlare delle confidenze ricevute da Armando Veneto in merito alla vicenda Giusti.
Il collaboratore racconta di avere avuto rapporti con Veneto in più occasioni: di averlo conosciuto mentre faceva pratica in un altro studio legale, negli anni Novanta  Veneto aveva difeso il padre di Pisani, nel 2011 Veneto era stato nominato co-difensore di Marcello Pesce, già difeso dal Pisani. È in quella occasione che i due avvocati si trovano a parlare e l’avvocato Veneto si lamenta con Pisani di alcuni suoi clienti di Rosarno, in particolare Rocco Gaetano Gallo. Nel corso del colloquio, Veneto aveva riferito al Pisani di conoscere bene il giudice Giancarlo Giusti in quanto o lui o la moglie (il collaboratore non ricordava chi dei due) aveva fatto pratica per un periodo presso il suo studio legale. «Riferiva, infine, Pisani che, sempre in occasione del predetto colloquio, l’avvocato Veneto gli aveva confidato di aver avvicinato il dottore Giusti per l’esito favorevole dei riesami, lamentandosi che, poi, i suoi clienti avevano fatto trapelare tale circostanza nel corso dei colloqui intercettati».  Il collaboratore racconta che Veneto «si era esposto… nel senso di aver parlato o per il tramite della moglie o direttamente con lui… con Giusti… per l’esito positivo di questo riesame e che si era ritrovalo nelle intercettazione, nel senso che parlavano di lui». L’avvocato Veneto a risposto con una querela nei confronti di Pisani circa queste dichiarazioni.
Nel corso dell’udienza del 12 febbraio 2022 Pisani è stato sentito come teste e ha affermato che l’avvocato Veneto «aveva parlato, aveva avuto modo di esporsi con il dottor Giusti per l’esito favorevole del Riesame e si era poi ritrovato nelle intercettazioni, quindi era abbastanza dispiaciuto di questa circostanza, era abbastanza preoccupato». Secondo il gup «Il narrato del Pisani è risultato spontaneo, coerente e costante nel corso delle plurime escussioni, né sono emerse ragioni di rancore, risentimento o astio che possano aver indotto il dichiarante ad elevare accuse di simile gravità in danno dell’imputato».

Le microspie nello studio di Minasi 

Scrive il gup che «Armando Veneto è stato, infatti, a più riprese, indicato da soggetti coinvolti o comunque pienamente a conoscenza dell’accordo corruttivo come colui che era intervenuto presso il giudice Giusti per il buon esito del riesame». Il penalista non sarebbe solo stato nominato nei colloqui in carcere ma «è stato espressamente additato dall’avvocato Minasi, nel corso di un colloquio intercettato all’interno del suo studio legale, quale anello di congiunzione tra i Bellocco ed il giudice Giusti. Solo successivamente, nell’interrogatorio reso dinnanzi alla Procura di Milano, richiesto espressamente di chiarire la portata delle dichiarazioni captate nel corso delle intercettazioni, il Minasi ha ritrattato, affermando che si era trattata di una mera millanteria».
Nel 2010 la Procura di Reggio Calabria aveva posto, nel corso di una indagine, delle microspie nello studio dell’avvocato Vincenzo Minasi per una indagine sulla cosca Gallico di Palmi. Il gup scrive che «Minasi era, quindi, convinto che l’avvocato Veneto avesse incautamente speso il nome del giudice Giusti, descrivendolo ai suoi assistiti come un soggetto avvicinabile, e in tal modo lo aveva rovinato: “ma lì secondo me la colpa ce l’ha Veneto, non perché… perché io lo conosco a questo giudice, ma è un bonaccione… Questo (riferito a Veneto, n.d.r) se l’è venduto sicuramente chissà quante volte, capito?”». Il 14.12.2011 dinnanzi ai pubblici ministeri di Milano, Minasi dichiarava di aver appreso dal medico Vincenzo Giglio, intimo amico del giudice Giusti, che il magistrato era stato corrotto per scarcerare i Bellocco. Al verbale di interrogatorio venivano allegati alcuni appunti manoscritti dal Minasi per aiutarsi a ricostruire le vicende per cui era chiamato a deporre. «Negli appunti manoscritti dal Minasi, dunque, la vicenda del processo aggiustato ai Bellocco sembrava legata anche all’intervento dell’avvocato Veneto, collocato tra il nome di Giusti e quello dei Bellocco». Tuttavia nel successivo interrogatorio del 27 dicembre 2011, Minasi, richiesto espressamente di specificare il significato di quell’appunto manoscritto, ridimensionava la portata delle sue precedenti esternazioni captate nei colloqui intercettati, asserendo di non avere conoscenza diretta del coinvolgimento dell’avvocato Veneto nella corruzione del Giusti, da lui inserita nel manoscritto perché aveva saputo da colui che gli aveva riferito della corruzione di Giusti che quest’ultimo, in passato, aveva svolto pratica forense nello studio di Veneto. Su questo punto il gup afferma che «sulla genuinità delle dichiarazioni rese dal Minasi nel corso del suo interrogatorio è lecito nutrire fondate riserve, alla luce del ben diverso tenore del dialogo intercettato e avuto riguardo, altresì, al fatto che il Minasi ha svolto pratica presso l’avvocato Veneto ed è stato da lui difeso in un processo penale, sicché, tenuto conto dei pregressi rapporti, non è inverosimile ipotizzare che egli abbia voluto circoscrivere artatamente la portata delle sue precedenti affermazione al fine di non danneggiarlo. Ma anche a prescindere da tale incidentale rilievo, quel che è certo che coloro che erano a conoscenza dell’accordo corruttivo riferirono al Minasi che il Giusti non solo era stato corrotto ma anche che aveva fatto pratica presso l’avvocato Veneto; circostanza, quest’ultima, come si è visto, all’epoca per nulla nota».

I colloqui in carcere

L’esistenza di un accordo corruttivo si apprende dai colloqui in carcere. I protagonisti della vicenda «facevano pressioni affinché l’istanza di riesame non fosse presentata alla dottoressa Grasso bensì ad un giudice “amico”». Dopo il buon esito del riesame i dialoghi diventano espliciti. «In essi – riporta il gup Ferrante in sentenza – non sono si fa riferimento espresso al fatto che “il tribunale della libertà era tutto manovrato”, ma viene addirittura indicata con esattezza la misura della tangente corrisposta: “Mica di zio Peppe (Domenico Bellocco classe 77 alias Micu u Longu, ndr) … ha detto …che il Tribunale della Libertà era tutto manovrato… gli hanno dato 40mila euro per ognuno (labiale) … al giudice”».

Corruzione ordita in carcere ma i tre non hanno agito da soli

Secondo il gup è indubitabile che vi fosse un accordo corruttivo, anche sulla base delle dichiarazioni di uno degli imputati, Vincenzo Albanese che in tale accorto ha preso parte attiva e che in seguito è divenuto collaboratore di giustizia. «L’ascolto dei dialoghi intercettati non lascia adito a dubbi: la regia occulta dell’accordo corruttivo deve essere individuata all’interno degli istituti penitenziari ove Rocco Gaetano Gallo, Domenico Bellocco classe ’77 e Rocco Bellocco si trovavano in quel frangente ristretti, prova ne sia il fatto che l’accordo corruttivo ha riguardato solo tre degli allora indagati attinti dal provvedimento di fermo che, non a caso, sono stati rimessi in libertà, mentre i rimanenti sono rimasti ristretti in carcere», scrive il giudice. Ma i tre indagati non potevano avere agito da soli, «qualcuno doveva averli avvertiti dell’effettiva composizione del tribunale riesame e della presenza all’interno del collegio di un giudice in qualche modo avvicinabile (tale consapevolezza emerge, peraltro, con chiarezza sin dai primi dialoghi intercettati); qualcun altro deve essersi poi fatto carico, su loro mandato, di avvicinare il magistrato corruttibile o, più precisamente, di stabilire un collegamento con colui o con coloro che avrebbero potuto in concreto avvicinarlo; vi è stato, inoltre, l’apporto di colui che ha materialmente messo a disposizione la provvista di denaro, di chi l’ha raccolta e di chi l’ha successivamente consegnata».
Dal canto suo, Vincenzo Albanese ha dichiarato a luglio 2020 «di aver percepito che la nomina dell’avvocato Veneto era, forse, avvenuta per ragioni non esclusivamente professionali ma anche in virtù delle sue presunte entrature all’interno del Tribunale: “ricordo che in alcuni discorsi percepiti nel palazzo Bellocco, tra i miei cognati, si faceva il nome dell’avvocato Veneto, a cui bisognava dare dei soldi, ma non sono a conoscenza di fatti specifici. Posso precisare solamente che l’avvocato Veneto non era il difensore di fiducia di mio suocero (Rocco Bellocco, ndr), anche se il suo nome girava tra noi, in quanto veniva indicato come un avvocato che era bravo professionalmente e che aveva le sue “amicizie” all’interno del Tribunale”». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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