C’erano un calabrese, un veneto e un bosniaco. Non è una barzelletta di Silvio Berlusconi ma tre degli imputati chiave in un processo che ci aiuta a capire storia e geografia del Locale di ’ndrangheta a Santhià, paese del Vercellese scelto come toponimo criminale di azione nel Nord del Piemonte. In effetti i picciotti operavano nel basso Biellese, come ricorda l’ultima relazione della Dia.
Ma a Santhià la scoperta ha lasciato uno shock.
Il giovane sindaco del paese vercellese si è costituito parte civile al processo chiedendo e ottenendo il danno d’immagine ricevuto dal Locale sgominato. Con i proventi dei soldi sequestrati sono state finanziate iniziative legalitarie. Don Ciotti ha inaugurato un parco intitolato a Rita Atria con, poi, l’aggiunta di una panchina per riflessioni antimafia.
Un calabrese, un veneto e un bosniaco, dicevamo. Il solito calabrese. Antonio Raso, detto Tartagna, nato a Cittanova nel 1942 e arrivato al Nord per guadagnare soldi. Nell’operazione Alto Piemonte ci stavano figli, parenti e conoscenti di uno dei tanti punti cardinali dei “Raso, Gullace, Albanese” che da Cittanova hanno esportato il loro network mafioso in diversi punti del Nord.
Raccontano che Tartagna il giorno della sentenza rimase impassibile nel sentire la condanna a 14 anni. Descritto dai cronisti delle gazzette locali colme di cronaca bianca e raduni alpini come «quell’uomo dallo sguardo mai remissivo, inappuntabile in quell’abito dall’eleganza antica come i suoi modi di fare pubblici, gentili ed educati».
Antonio Raso che per l’età avanzata allo scattare del blitz aveva evitato il carcere restando ai domiciliari. Lui, il primo boss ad essere condannato per mafia con uomini del Biellese.
Il quartier generale era nella sua villa di Cascina Mosè tra Dorzano e Cavaglià. Paesi con un piccolo centro e tante cascine sparse. Non mancano negozi di delizie gastronomiche calabresi.
Ma c’era anche un veneto con il calabrese. Un veneto originario di Taranto, consulente del lavoro e fiscalista. Angelo Di Corrado tra Dorzano e Cavaglià si era preoccupato di intrattenere contatti con personaggi del mondo bancario e dell’imprenditoria al fine di favorire la penetrazione in attività economiche lecite in modo che i Raso si potessero aggiudicare fidi, fideiussioni, appalti. Un consigliori dalla faccia pulita che si occupava di riciclare i soldi del racket e del traffico di droga. Curava le finte assunzioni per procurare buste paga trovando soluzioni legali al clan. Un sua specialità.
Aveva buone referenze Di Corrado. Dalle sue parti in Veneto si era messo a disposizione di Luciano Donadio, considerato il boss di Eraclea, un gruppo insediato nel Veneto orientale dagli anni 90, andando a rilevare le attività che erano sotto l’egemonia della Mala del Brenta. In questo modo il gruppo legato al clan dei Casalesi, fazione Bidognetti, era riuscito a conquistare il controllo di una parte del tessuto economico locale, dall’edilizia alla ristorazione, oltre ad imporre un “aggio” per il narcotraffico e lo sfruttamento della prostituzione. Ma aveva fatto anche altro Di Corrado. In un processo a Venezia aveva spiegato ai giudici di aver messo a posto a modo suo società di subappalto per le navi di Fincantieri. Con le sue dichiarazioni aveva permesso di trovare riscontro sullo sfruttamento più bieco di manodopera, sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro o del rinnovo del permesso di soggiorno. Buste paga all’apparenza regolari ma che in realtà nascondevano condizioni di lavoro al limite della schiavitù: 7 euro l’ora, straordinari fatti e non pagati, tredicesima e festività inesistenti. Una rete di società gestite da imprenditori di nazionalità albanese, che avevano ottenuto commesse per la realizzazione di opere di cantieristica, accusate di aver fatto scempio dei diritti dei lavoratori.
Di Corrado ha anche raccontato delle centinaia di fatture false emesse dal suo studio o da società collegate. Fatture per 6 milioni, permettendo ai destinatari di dichiarare spese mai sostenute, per un’evasione stimata in 1,3 milioni di euro.
Di Corrado a Nord Ovest e a Nord Est corrompeva, brigava, si presentava nelle aziende con il suo volto da nerd di successo. Dietro di lui c’erano i Raso, i Casalesi, le aziende albanesi che sfruttavano manodopera a Porto Marghera. Oggi la chiamano non mafia. Un tempo erano i colletti bianchi. Era lui il veneto di origini tarantine a far soldi con i calabresi.
Ma c’era anche uno slavo a Cascina Mose. Suvad Operta, nato a Vares in Bosnia Erzegovina. Era approdato anche lui a Cascina Mose, compagno di una donna dell’Est chiamata a servizio dai Raso. Lo avevano visto scaltro e determinato e lo impiegavano per i raid punitivi dei night della zona che non pagavano il pizzo. I calabresi lo chiamavano Dino. Ma lui era Suvad. Era riuscito a scappare allo scattare del blitz “Alto Piemonte” e nascondersi nei suoi luoghi d’origine. Si era guadagnato il ruolo di “pericoloso latitante”. A Biella gli investigatori non l’avevano mai mollato monitorando i suoi contatti. Lo rintracciano a Milano chiudendo la sua fuga e il suo praticantato di ’ndrangheta nella provincia piemontese.
Antonio Raso ha comunque commesso un grave errore. Di quelli decisivi. Nel suo quartier generale nascosto al mondo era entrato anche Cosimo Di Mauro che aveva sposato sua figlia. Cosimo dopo il blitz non regge il carcere, cerca i magistrati e viene affidato al regime di protezione. E racconta in aula in videoconferenza che ogni settimana andava con il cognato a ritirare due chili di cocaina, che era lui l’esattore del pizzo e fornisce tutti i riscontri, che sempre lui andava personalmente a bruciare le auto dei titolari dei night che non pagavano dazio. Spiega come funzionava la “bacinella”, come nascose le armi di provenienza croata e l’esplosivo nel basamento di un tavolo a Porlezza, nel Comasco, facendolo scoprire agli agenti della squadra mobile di Biella.
Ha raccontato anche che doveva gambizzare un magistrato. Ma oppose rifiuto.
In questo modo si è disintegrato il locale di Santhià che operava nel Biellese.
Il 5 aprile 2019 al tribunale di Biella un giudice ha letto la sentenza che condannava Antonio Raso a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Condanna anche per Angelo Di Corrado ad 8 anni per concorso esterno ed estorsione, ritenuto il tramite tra la cosca e il mondo bancario e imprenditoriale, 7 anni a Suvad Operta ritenuto braccio operativo di quei calabri cresciuti in Piemonte.
C’erano un calabrese, un veneto e un bosniaco. Operavano in un locale di ‘ndrangheta nel Biellese. Nel profondo Nord che sfugge alle grandi cronache dei media e dei telegiornali. (redazioni@corrierecal.it)
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