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I diritti calpestati, la sanità che non c’è e il «gusto di girare le spalle alla ‘ndrangheta». L’ultimo reportage di Amedeo Ricucci

L’inviato di guerra, prima della sua morte, racconta la Calabria vista da un calabrese che ha vissuto altrove. Tra i paradossi della salute e chi alza la testa contro la criminalità organizzata

Pubblicato il: 05/12/2022 – 14:37
I diritti calpestati, la sanità che non c’è e il «gusto di girare le spalle alla ‘ndrangheta». L’ultimo reportage di Amedeo Ricucci

L’amore per la sua terra lo aveva convinto a progettare un reportage sulla Calabria vista da un calabrese che aveva vissuto altrove. Un racconto incompleto, perché proprio mentre iniziavano le riprese, quel tumore che Amedeo chiamava “problemino” si era aggravato, a tal punto che alcune interviste era stato costretto a realizzarle al telefono. Amedeo Ricucci è morto l’11 luglio 2022 in un hotel a Reggio Calabria mentre si preparava ad una nuova giornata di lavoro. Questo è il reportage di un giornalista che ha passato molti anni come inviato di guerra: “Calabria in bianco e nero”, andato in onda domenica sera nello spazio dello Speciale Tg1 delle 23,40. Il “viaggio” inizia da San Giovanni in Fiore con un’intervista a Stefania Fratto, presidente dell’Associazione Donne e Diritti.

Amedeo Ricucci

Fratto: «Tentiamo di vivere e non sopravvivere in Calabria»

«Come tutti i paesi delle aree interne in Calabria – afferma la presidente – abbiamo tante cose belle ma anche cose brutte. Tra queste, le carenze dei servizi sanitari, sociali e culturali ed e per questo che noi donne, e siamo tante, ci siamo aggregate per ottenere la riqualificazione del nostro ospedale. Fino al 1990 ha funzionato benissimo, poi all’improvviso, in una notte, nel 2010, sono stati cancellati diciotto ospedali in tutta la regione. Il nostro ne è uscito fortemente ridimensionato ed oggi ci ritroviamo solo con un reparto di medicina sofferente. Vi lavorano solo due medici ed a San Giovanni in Fiore non si nasce più. Le donne incinte sono costrette ad andare a partorire a Cosenza, a Crotone e spesso nelle cliniche private perché gli ospedali sono sovraffollati. Non c’è più un mammografo e non si fa più prevenzione – incalza Fratto – e così noi di Donne e Diritti ci siamo rimboccate le maniche, abbiamo lottato e dopo tre mesi (ed in un camper allestito dalla provincia di Cosenza, ndr) siamo riuscite a far eseguire cinquemila mammografie, scoprendo dieci casi gravi».
La prevenzione, quindi, intesa come valore. «Il mammografo per cui stiamo lottando da più di quattro anni, dicono sia stato acquistato ma non è ancora disponibile. Da noi la malasanità è un problema e più che malasanità, a San Giovanni in Fiore siamo di fronte ad una sanità negata. Purtroppo la carenza di servizi sanitari, insieme al lavoro che non c’è, è anche causa di emigrazione e spopolamento enorme. Prima eravamo quasi 25mila abitanti, oggi siamo quasi 9mila, i giovani vanno via ed il paese diventa sempre più vuoto».
«Anche per tentare di invertire la rotta, abbiamo deciso di creare il forno solidale. Ogni settimana impastiamo qualità, panifichiamo all’antica con il lievito madre ed il pane sfornato viene donato alle famiglie disagiate di San Giovanni in Fiore e del comprensorio. Nel nostro forno vengono a panificare donne che hanno subito violenza, donne emigranti, donne che vivono un disagio e frequentano i laboratori nati all’interno del centro».
«San Giovanni in Fiore deve continuare vivere; se non c’è qualcuno che decide di restare e di crederci, faremo la fine di tutti quei paesi che scompaiono. Così scompare, non solo il paese ma la comunità, e tutti i sacrifici che hanno compiuto i nostri antenati andranno persi. Chi resta è coraggioso, restare è difficile in un luogo come il nostro. Abbiamo creato anche un premio letterario, “Città di San Giovanni in Fiore”, che si svolge ogni anno il 18 agosto e stiamo facendo concorrere grandi firme». L’ultima edizione del premio è stata dedicata proprio ad Amedeo Ricucci. «Dobbiamo tentare di alimentare quella speranza di poter continuare a vivere e non a sopravvivere in Calabria», conclude Stefania Fratto.

Stefania Fratto

Curia: «Siamo figli di un dio minore»

“Calabria in bianco e nero” prosegue poi con un’intervista a Rubens Curia, medico infettivologo, nel 2008 commissario straordinario dell’Asp di Palmi che da anni si batte per una riforma partecipata della sanità regionale e responsabile di “comunità competente” a Lamezia Terme.
«Ci ha travolto uno tsunami – esordisce Curia – che è la cronicità. In Calabria hanno guardato con occhiali vecchi, ecco perché è crollato tutto. Prima faceva tutto il medico, non c’erano tac, risonanza magnetica, pet, era un’altra medicina e questo sistema ha retto fino ad un certo punto. Poi in Veneto, Emilia Romagna, Toscana, hanno capito che quella medicina non andava più bene mentre noi questa riconversione non l’abbiamo fatta e i nostri politici hanno difeso fino all’ultimo, fino a quando non è crollato tutto, gli ospedaletti di Scilla, di San Marco Argentano ed il sistema non ha più retto. La gente vuole gli ospedali, ma perché l’ospedale funzioni, deve funzionare l’assistenza territoriale, altrimenti tutti scappano in ospedale ed allora si verifica l’aggressione all’infermiere, al medico, dopo un’attesa di sette ore».
Il reportage di Ricucci ricorda che la sanità regionale calabrese è commissariata dal 2010, dodici anni in cui si sono succeduti sette commissari. «E dal 2019 sono commissariate per infiltrazioni mafiose anche le aziende sanitarie di Reggio Calabria e Catanzaro».
Ruben Curia rammenta, quindi, la differenza di aspettative tra un bolzanino e un reggino: «Sessantanove anni e cinquantadue. A Bolzano la “pasticca” per le patologie croniche iniziano a prenderla a sessantanove anni, in Calabria si inizia a cinquantadue. E questa è l’aspettativa di buona salute, non di vita. Ciò significa che il calabrese a quell’età inizia ad accusare malattie croniche».
A proposito di prevenzione, Curia riporta l’esempio dello screening del colon-retto: «Nelle altre regioni gli italiani sono raggiunte da una lettera che li invita a fare gli esami; da noi, in provincia di Reggio Calabria quella comunicazione non è mai arrivata. Se una persona over 65 si frattura la testa del femore, solo il 35% dei pazienti riesce ad essere curato entro 48 ore, quindi siamo al di sotto della media nazionale. Si tratta dei cosiddetti Livelli essenziali di assistenza, per i quali, il ministero boccia la Calabria da molti anni».
«E lo stesso discorso vale per il pronto intervento di un’ambulanza. Il sindaco di Bova – racconta Curia – ha scritto al presidente della Repubblica riferendo che quando lì qualcuno si ammala ed ha bisogno di un’ambulanza, arriva mediamente dopo 42 minuti. Questi sono diritti calpestati, specialmente nelle aree interne della nostra Calabria, composta per il 90% da montagna e collina. Siamo la regione che ha il maggior numero di accessi ai dipartimenti di salute mentale; siamo i primi in Italia per numero di persone che accusano una patologia cronica disabilitante grave. Ci sono dei problemi sociali accompagnati da un difetto nella prevenzione. Una persona fragile che perde il lavoro, un precario o chi lavora a nero può andare incontro a problemi mentali, che poi ritroviamo nei dipartimenti di salute mentale. Non riuscendo a erogare un sistema sanitario che funzioni, noi in Calabria siamo figli di un dio minore. Quest’andazzo però va contrastato».
Il turismo sanitario calabrese «è quasi indecente». «La Regione spende – sottolinea il medico – 310 milioni di euro per quei calabresi che si ricoverano fuori. E questi stessi calabresi spendono in vitto, alloggio viaggio. Ma non tutti possono permettersi la mobilità passiva. In Calabria ci sono persone che non possono permettersi di curarsi a causa della povertà e questo è un elemento da considerare».
«Dobbiamo rilanciare gli ospedali. Nel 2019 abbiamo ricevuto 86 milioni; finanziamenti ottenuti grazie ad una legge nazionale finalizzati ad acquistare attrezzature medicali che non abbiamo speso. I medici lavorano molte volte con attrezzature obsolete. E così accade nel campo dell’edilizia sanitaria, la grande vergogna. Le responsabilità sono di quella politica che alla fine degli anni ’90 ha guardato alla sanità come ad un bancomat e non ha voluto assolutamente modificarne la visione che andava profondamente cambiata. Da una parte le case della salute, i consultori familiari, i centri diurni non sono stati realizzati; dall’altra gli ospedali, dovevano agire come tali». 

Rubens Curia

Albanese: «I fondi per l’edilizia sanitaria ci sono ma non vengono spesi»

Calabria in bianco e nero approfondisce la chiusura dei diciotto ospedali, decretata nel 2010, e raggiunge Siderno per ascoltare Salvatore Albanese, del comitato Casa della Salute di Siderno. «Nel 2012 la sanità è stata riprogrammata, immaginando luoghi di prossimità. La politica aveva pensato di convertire le strutture come l’ospedale di Siderno in case della salute. Qui abbiamo, in sostanza, una grande struttura abbandonata in cui insiste solo qualche ambulatorio. Non siamo nella necessità di reperire i fondi per la ristrutturazione, quelli ci sono. Il problema è che non vengono utilizzati, ed questa è la vergogna. Purtroppo promesse e rassicurazioni non hanno sortito effetto».
Ricucci torna da Curia e chiede se vi sia speranza per la sanità calabrese. «La speranza c’è. Intanto perché abbiamo dei bravi medici e operatori, sparsi qua e là – risponde – che dobbiamo sostenere. È necessario però che le varie competenze si intreccino. Parliamo dell’edilizia sanitaria: dal 1998 alla Calabria sono stati destinati 1,4 miliardi euro, fondi mai spesi. E così nella Locride, a Palmi, si sono formati dei comitati che stanno portando avanti delle battaglie perché le case della salute sono fondamentali. Di chi le colpe? Non c’è un nemico fuori, ma altri che scrivono la loro storia puntano ai loro interessi. Dobbiamo, noi, puntare ad avere ospedali all’altezza che impediscono tutto ciò. Dal 2012 la legge prevede che in queste strutture i medici tengano aperti i loro studi dalle 8 alle 20 e questo potrebbe essere un punto di riferimento fondamentale, soprattutto nelle aree interne. Dobbiamo ambire ad un nuovo modello organizzativo ma non è stato compreso. È sostanziale riconquistare i diritti. Ogni anno la sanità calabrese, perché commissariata, paga circa 100 milioni per un incremento dell’Irpef e dell’Irap».

Salvatore Albanese

Caserta: «La salute va preservata, non bisogna curare solo le malattie»

Le telecamere si spostano poi tra Pellaro e Arghillà, periferie sud e nord di Reggio Calabria, dove Lino Caserta, medico volontario, ha ispirato la creazione di due poli di medicina solidale.
«Qui (ad Arghillà, ndr), c’è di tutto, ci sono mille storie, la scarsa consapevolezza di quelli che possono essere i bisogni della salute. Qui una malattia diventa tale solo quando provoca un handicap. C’è chi ha paura di rivolgersi ad un’organizzazione che si propone come istituzione, c’è diffidenza per l’istituzione stessa. Ad Arghillà c’è qualche negozietto, c’è la farmacia, c’era una scuola che è stata chiusa, viene aperta in alcuni giorni della settimana, durante alcune ore della giornata in cui c’è la polizia. Noi siamo qui da un anno e mezzo e non ce ne andremo. Siamo arrivati, abbiamo affisso la targa che indicava il polo sanitario di prossimità, poi ci siamo resi conto che andava aggiunta l’indicazione secondo cui qui, chiunque entri, incontra accoglienza, diritti, ascolto, dialogo e servizi sanitari gratuiti». Su alcune vetrate del polo sanitario sono affissi articoli della Costituzione italiana, come il numero 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
«I princìpi di quell’articolo – dice Caserta – in realtà li stiamo perdendo. Garantire cure gratuite agli indigenti è un bene fondamentale, quindi è importante che questi prìncipi vengano richiamati, ma soprattutto è importante che vi siano luoghi dove quei princìpi vengano concretamente autenticati, soprattutto in Calabria. La salute va preservata, non bisogna curare solo le malattie: tutto questo ha ispirato la legge di istituzione del sistema sanitario nazionale. I livelli culturali ed economici sono fattori che incidono sulla nostra salute e noi dobbiamo essere i grado di intervenire su tutti. Questo non è solo un ambulatorio che garantisce servizi a chi ne ha bisogno, qui ci facciamo (ri)propositori di un modello che vuole rimettere al centro la prevenzione. La pandemia ci ha insegnato che il nostro benessere dipende dal rapporto con l’ambiente e della nostra capacità di riuscire a rispettarlo».
La sanità in Calabria è percepita come un favore e non come un diritto, sottolinea Ricucci. «Non riguarda solo la sanità – risponde Lino Caserta –. Qui è più forte la logica della sudditanza. Noi siamo Stato, tutti dobbiamo farci Stato, non è qualcosa con cui contratta dei diritti. Questi diritti ce li dobbiamo costruire giorno dopo giorno, ed è quello che stiamo facendo qui. Non siamo una comunità, come qualcuno ci ha descritto, di gente ormai persa, abbandonata alla disperazione, tutt’altro. Qui, invece, si accendono i riflettori solo sui fatti negativi, e tutto questo non fa altro che alimentare la disperazione. Nessuno vuole nascondere le contraddizioni calabresi, certo non si può rispondere ai problemi commissariando nel modo in cui è stato fatto. Abbiamo avuto commissari che non sapevano quello che firmavano. Invece si risponde ai problemi affidando responsabilità a quei calabresi che dimostrano capacità. Qui chiediamo più attenzione, ascolto, dialogo. Da questa situazione ne usciamo tutti quanti insieme, ne esce lo Stato, il Paese, ne escono fuori i calabresi se siamo in grado di recuperare tutta quella gente di buona volontà che c’è in Calabria e in Italia e che si impegna con passione, con competenza e capacità di innovazione, a fornire soluzioni. Dopo undici anni di commissariamento ne stiamo uscendo peggio dell’inizio. Se ciò accadesse con i nostri ammalati – è la metafora di Caserta – saremmo tutti in carcere. Se ci portano i pazienti che stanno male e noi li conduciamo sul punto di morire noi medici saremmo tutti in carcere. Non vogliamo cambiali in bianco ma che le risorse vengano affidate a gente che ha capacità, competenza e si approcci in maniera del tutto disinteressata, ovvero consapevole che sta realizzando un bene per la comunità. Questo è il senso del perché siamo qui».

Lino Caserta

Gangemi: «La ‘ndrangheta ha occupato degli spazi che erano dello Stato»

In questo suo ultimo reportage sulla Calabria, Amedeo Ricucci incontra anche Mimmo Gangemi, scrittore, giornalista che dai territori dell’Aspromonte, dove vive, racconta i cambiamenti in atto nella società calabrese contemporanea. «La Calabria è una regione che ha pecche anche gravi, ma viene tarata oltre i demeriti che ha. Mi riferisco alla solidarietà umana, all’accoglienza, alla voglia di vivere, a quello che abbiamo ereditato dalla Magna Grecia e che in qualche misura ancora si mantiene. Quell’idea che calabrese sia sinonimo di ‘ndranghetista non esiste. Anche in questa direzione la mentalità si sta evolvendo e ne stiamo uscendo. L’Aspromonte per molto tempo è stato al centro delle cronache, ha questa nomea perché ha il suo passato che, tuttavia, è passato. Ancora oggi questa montagna, tra l’altro bellissima, viene guardata con ostilità come se dietro ogni tronco di faggio ci fosse un bandito armato di lupara. Finiti i sequestri, da trent’anni, l’Aspromonte è una montagna da godere in tranquillità».
«L’omertà era spesso connivenza – spiega Gangemi – era sentirsi da quella parte della barricata, ma negli ultimi decenni molto è cambiato. L’omertà esiste ancora ma tende ad assumere i connotati della paura. Ci sono sacche di resistenza importanti, paesi dove la ‘ndrangheta è ancora incisiva e governa anche le menti però, c’è una civiltà che avanza e di cui bisogna prenderne atto, ma l’Italia non ne vuole sapere. Non si può chiedere ai calabresi di diventare tutti eroi, credo sia un sacrificio troppo grande. Le cose si aggiusteranno e si stanno aggiustando attraverso idee nuove, contribuendo tutti insieme a realizzare un mondo più civile. Gli esempi positivi sanno moltiplicarsi». L’inviato sottolinea come vi sia ancora una fetta di popolazione che non vive la legalità come un faro. «È un problema di furbizia. Concordo in pieno, i furbi sono ancora lontani dall’idea di Stato perché magari blaterano in piazza sulle cose che marciano male ma poi assumono comportamenti assolutamente negativi. Piccole furbate indicative di una mentalità ristagnante e che non decolla».
«Ci sono colpe serie nello Stato per la situazione attuale, ma questo non può giustificare tutti i problemi. Per lunghi anni, dai tempi dell’Unità d’Italia in poi, lo Stato ha concesso molto a queste periferie della civiltà. Ai tempi dell’onorata società – prosegue lo scrittore che accompagna in auto Ricucci tra le vie dell’Aspromonte – c’era la vanità dell’appartenenza, dell’esibizione del mostrarsi “io sono…”. Il prete, quindi la Chiesa, affidava la statua alla processione ai malavitosi e davanti a loro c’era il brigadiere o il maresciallo dei carabinieri in grande uniforme coi sui uomini e c’era il sindaco con la fascia. Quell’affido indicava una via: la onorata società, che poi è continuata con la ‘ndrangheta, ha occupato degli spazi vuoti che erano dello Stato. Dopo decenni estirpare un certo tipo di mentalità resta complicato. Sono abbastanza ottimista sull’idea che la ‘ndrangheta, come diceva Falcone, tenderà a scomparire. Noto che qualcosa va mutando, che la gente si va allineando ad una mentalità diversa che condanna questi fenomeni. Vedo nero, invece, se penso che la nostra è una terra in cui il dissanguamento continua con i giovani che se ne vanno e questo mi induce a pensare che il futuro non sia molto roseo».

Mimmo Gangemi

Fazari: «La cooperazione fa paura perché sottrae consenso»

Dall’Aspromonte alla Piana. Lo Speciale Tg1 mostra l’esperienza della Valle del Marro, una cooperativa sociale con sede a Polistena, che lavora cento ettari di terreno confiscato a diversi clan di ‘ndrangheta. «Valle del Marro è stata la prima esperienza calabrese del circuito di Libera Terra – spiega Domenico Fazari, referente della coop – la seconda in Italia dopo la Placido Rizotto in Sicilia. È composta da undici soci cooperatori e attualmente produciamo arance, clementine, olio, peperoncino che trasformiamo e vendiamo come prodotti finiti. Di terreni confiscati in Calabria ce ne sono migliaia di ettari, non tutti sono coltivati e molti sono ancora non sono stati assegnati. Noi quest’anno diventeremo maggiorenni dopo diciotto anni di attività. Ci siamo chiesti per un anno e mezzo se queste esperienze rappresentassero uno schiaffo alle mafie, perché abbiamo iniziato i lavori a dicembre 2005 e fino al 2006, di fatto, non è successo nulla. Poi a dicembre del 2006 si sono verificati i primi attentati, il sabotaggio dei mezzi, l’incendio degli uliveti. Negli anni si sono succeduti diversi tentativi di scoraggiare l’iniziativa, però abbiamo capito che la strada intrapresa era giusta. L’idea che i diritti siano scambiati per favori, la rassegnazione secondo cui qui non cambi mai nulla l’abbiamo accantonata, come abbiamo messo da parte la paura e tanti modi di dire come fatti i fatti toi ca campi cent’anni. Lavorare in cooperativa aiuta a cambiare mentalità e quella cultura dell’individualismo che ci caratterizza. Da soli, per assurdo, si può lucrare di più, ma soli poi affrontiamo problemi e difficoltà che qui si chiamano ‘ndrangheta. Proprio per questo possiamo cambiare la mentalità mafiosa che punta a isolare la gente, all’emarginazione. Il gruppo, lo stare insieme, la cooperazione fa paura perché sottrae consenso».
«La mia voglia di non andare via, e quindi di restare, la spiego con le opportunità di vita vissuta sin da ragazzino. Trentaquattro anni fa, la prima Estate Ragazzi: è stata l’opportunità di aprire gli occhi. Ricordo da bambino i morti per strada nei luogi dove da adolescente si andava a passeggiare. L’unico luogo dove potevamo stare insieme, parlarci, ragionare, guardarci negli occhi è stata la parrocchia. In quegli anni difficili abbiamo avuto la possibilità di confrontarci, di affrontare i problemi con persone che ci dicevano che dovevamo essere noi i protagonisti. Insieme ai miei amici ci siamo sentiti chiamare da una vocina che si chiama coscienza a mettere in pratica tutte le belle parole che ci eravamo detti in quegli anni. Questa è stata l’opportunità giusta, riscattare il bene più grande per un giovane di questo territorio che è la libertà di rimanere nella propria terra».

Domenico Fazari

Demasi: «La gente comune sta ritrovando il gusto di girare le spalle alla ‘ndrangheta»

A Polistena la parrocchia del Duomo organizza dai primi anni Novanta l’Estate Ragazzi. Il parroco, don Pino Demasi è anche il referente di Libera per la piana di Gioia Tauro.
«La grande scommessa da vincere in questi territori è proprio quella di opporsi con tutti i mezzi alla mentalità mafiosa. E ne siamo tutti pieni, purtroppo è nel nostro Dna. La scommessa è aiutare la gente a lasciarsi alle spalle quella mentalità fatta di rassegnazione, silenzi, paure, dipendenze. Il cambiamento vero lo avremo quando collettivamente passeremo dall’io al noi e un nuovo modo di relazionarci. Proprio con i bambini stiamo insistendo su questo tipo di relazioni, che partono dal rispetto gli uni degli altri. Sono ottimista perché pur tra mille difficoltà tanto cammino è già stato percorso. Non abbiamo sconfitto la ‘ndrangheta, abbiamo sconfitto la paura. Ciò che mi scoraggia è il dietrofront delle classi imprenditoriali ma sostanzialmente la gente comune sta ritrovando il gusto di girare le spalle ad un mondo di mafiosità permanente».
Fazari racconta, infine, in chiusura di reportage, anche l’esperienza della scuola calcio Seles che «al fianco del progetto sportivo mette quello educativo. I bambini prima di entrare in campo entrano in aula, seguiti da educatori e psicologi, e si confrontano su tematiche a noi care come la giustizia, la legalità, il rispetto delle regole e dell’altro. Abbiamo aperto le iscrizioni a fine agosto ed oggi abbiamo circa 130 bambini. Vogliamo che il pallone – conclude – sia momento di unione e condivisione, però dobbiamo insegnare ai bambini, perché spesso la vita di tutti i giorni questo non lo fa». (redazione@corrierecal.it)

don Pino Demasi

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