STECCATO DI CUTRO Ai lati dell’ultimo tratto di strada che porta alla spiaggia di Steccato di Cutro, ci sono case disabitate, ben fatte, finite, senza mattoni e ferri arrugginiti a dare alla Calabria il solito volto decadente. Davanti ai cancelli, però, sono accatastati oggetti di varia natura: credenze, materassi, cuscini, tubi, tavolini, tricicli, piatti, bicchieri. Sono quello che resta dell’alluvione di dicembre. «Non c’era mai stato nulla del genere da queste parti, il mare è arrivato fino a qui», rivela un carabiniere che vede i passanti fotografare quella strana immondizia per strada e vuole quasi giustificarla. «Queste sono le case dei turisti – dice l’uomo in divisa – chiamiamoli così. In realtà è gente del posto che vive in Emilia-Romagna e qui ci torna solo d’estate». Anche se l’estate, in questa minuscola porzione di mondo che oggi è conosciuta da mezzo mondo, probabilmente non avrà più il sapore di prima.
«Queste case sono belle, alcune sono nuove, ma ormai non hanno più alcun valore. Il bagno in questo mare maledetto, non verrà più a farlo nessuno». Il mare, pochi passi più avanti, è ancora incazzato, proprio come raccontavano le immagini della televisione la mattina del 26 febbraio. Ci sono rose conficcate nella sabbia, a riva. Alcune resistono al vento e alle onde, altre si fanno portare via, qualcuna appassisce senza scomporsi. Ci sono le croci imperfette, fatte con i resti della barca che non ha aiutato nessuno, sfiorate timidamente da mani e sguardi che si fanno largo con compostezza tra la folla.
Ci sono vestiti, peluche e la sabbia che li affossa e li circonda, quasi a volerli proteggere dai curiosi. Come se quello spazio fosse un museo all’aperto e improvvisato di una terra lontanissima, forse mai come negli ultimi giorni, che appartiene a un Paese che la racconta con distacco e arroganza e non la conosce veramente. Una terra di migranti e migrazioni, da cui tutti fuggono da sempre per cercarsi un futuro migliore o qualunque, mentre altri arrivano, inconsapevoli, per lo stesso tragico motivo. Uno di loro parla alla folla in afgano. «È un familiare delle vittime», sussurra una ragazza a un’amica un attimo prima che arrivi la traduzione: «Il vostro primo ministro non ha avuto il coraggio di venire qui a darci le condoglianze. Questo primo ministro, non vi rappresenta. Non ho trovato differenze tra i talebani e il governo italiano». (redazione@corrierecal.it)
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