VIBO VALENTIA “Imperium” inizia a bordo di un’Audi A3 e finisce per raccontare gli interessi della cosca Mancuso in settori nevralgici dell’economia Vibonese «e in particolare nella gestione delle strutture turistico – ricettive, anche attraverso il controllo delle assunzioni e delle forniture di generi alimentari, nonché nel commercio e nella distribuzione di prodotti ittici e di altri generi di consumo». Nell’inchiesta “Quinta bolgia” gli investigatori ascolta una conversazione dalla quale emerge la figura di Paolo Mercurio, fermato nell’inchiesta della Dda di Catanzaro. È lui a proporre a una donna di «aprire un’attività di vendita di prodotti ittici a Milano», offrendosi come prestanome per la potente cosca Mancuso. La donna è figlia di «un elemento di spicco della criminalità lametina» assassinato anni fa, «già titolare di diverse imprese operanti nel settore ittico e in ottimi rapporti con membri della cosca» di Limbadi.
Che Mercurio avesse «stretti legami» con il clan è, per gli inquirenti, un fatto che risale all’aprile 2015, ai tempi dell’arresto di Diego Mancuso “Addecu” che, in effetti, «si accompagnava» con Mercurio. Rapporti di frequentazione confermati da intercettazioni e immagini di videosorveglianza. E anche da un «anomalo e periodico rapporto epistolare» tra l’uomo e il detenuto Pantaleone Mancuso, “Luni Scarpuni”. Antonio Vacatello, considerato il capo ‘ndrina diVibo Marina; Peppone Accorinti, boss di Zungri; un fratello di “Scarpuni” e altri pregiudicati sono il cuore dei contati di Mercurio con persone di «spessore criminale». C’è, poi, Assunto Megna, noto imprenditore del settore ittico, cognato del boss “Scarpuni” perché sposato a una sorella di Santa Buccafusca, moglie deceduta del capoclan. Megna è anche il padre di Pasquale Alessandro, neo collaboratore di giustizia. Circostanza che lo mette in una nuova luce, sia per le dichiarazioni rese dal figlio ai magistrati – l’inchiesta è firmata dal procuratore Nicola Gratteri e dai pm Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci e Andrea Giuseppe Buzzelli – che per il pericolo di fuga che ne consegue.
Mega frequenterebbe, secondo l’accusa, sia «figure di rilievo della cosca Mancuso» che esponenti di «compagini alleate» come i Pesce di Rosarno. Le intercettazioni che lo riguardano darebbero prova di un «forte interessamento verso una particolare struttura ricettiva: il Villaggio Sayonara di Nicotera Marina, sino al 26.08.2009 gestito dalla società Sayonara S.r.l. dichiarata fallita in quella data dal Tribunale di Vibo Valentia». La compagine societaria che amministra la struttura porta dritta al clan Mancuso e in particolare a Luigi, “Crimine” per la provincia di Vibo Valentia e capo della locale di Limbadi, il “Supremo” arrestato nel dicembre 2019 nell’operazione “Rinascita Scott”.
Per chi sa di mafia, Sayonara non è una parola qualsiasi. Quel villaggio di Nicotera a pochi metri dal mare «riveste un particolare interesse sin dagli anni ’90, poiché considerato storicamente come la struttura ricettiva della cosca Mancuso, luogo sicuro e protetto nel quale esponenti criminali hanno soggiornato nei periodi di latitanza e hanno svolto in tutta tranquillità anche veri e propri summit mafiosi».
Quegli incontri riservati avrebbero visto protagonisti «esponenti di Cosa Nostra siciliana e di ‘ndrangheta». Summit organizzati nel 1991 assieme ad altri seguiti agli attentati in cui persero la vita Falcone e Borsellino. «I summit – riassumono i magistrati della Dda di Catanzaro – si sarebbero tenuti nelle stagioni 1991-1992 e 1992-1993 a Nicotera Marina, proprio all’interno del villaggio turistico Sayonara, controllato dalla famiglia Mancuso di Limbadi, legata a quella dei Piromalli, egemone nella piana di Gioia Tauro». Diversi pentiti hanno raccontato che in quelle occasioni «la mafia siciliana avrebbe proposto alla ‘ndrangheta calabrese l’adesione alla cosiddetta strategia stragista. Per interloquire con Cosa Nostra furono chiamati a partecipare tutti i capi delle varie famiglie di ‘ndrangheta, da Cosenza a Reggio Calabria». Luigi Mancuso, padrone di casa, decise «di non aderire apertamente alla politica stragista dei Corleonesi, per non attirare l’attenzione istituzionale».
Un passaggio storico nei rapporti tra le mafie e nella progetto di aggressione allo Stato pensato sull’asse Sicilia-Calabria. Gli incontri tra ‘Ndrangheta e Cosa Nostra passano, il Sayonara resta e così i suoi presunti legami con la cosca egemone di Limbadi. Oggi il resort è controllato dalla società “Gestioni turistiche srl”, con sede a Catania e Nicotera, finita oggi sotto sequestro.
Da vecchi giri di passaggi di quote e assegnazioni della curatela fallimentare emerge la figura di Assunto Megna, definito «fiduciario di Luigi Mancuso», che avrebbe avviato nel novembre 2016 «contatti telefonici con “Alpitour”, per verificarne la disponibilità alla gestione del villaggio». Questo nonostante l’uomo fosse «formalmente estraneo alle compagini societarie delle imprese afferenti al Sayonara». È «uno snodo centrale dell’attività di indagine: poiché gli elementi intercettivi raccolti consentiranno di riscontrare» le dichiarazioni «di numerosi collaboratori di giustizia che già in epoca risalente avevano riferito che la struttura ricettiva fosse in mano ai Mancuso».
La Dda ricostruisce la storia recente del Sayonara la cui proprietà immobiliare, a conclusione di una procedura fallimentare, viene rilevata dall’indagato Giuseppe Fonti. A lui, nel febbraio 2017, il Tribunale di Vibo Valentia aveva assegnato l’intera proprietà del villaggio per un milione e 473mila euro: «Le risultanze investigative – scrivono i pm – hanno evidenziato come Luigi Mancuso abbia preventivamente avallato l’aggiudicazione dell’immobile in favore del Fonti, interloquendo con l’ex proprietario oggi deceduto che, nonostante la sentenza dichiarativa di fallimento, continuava ad interessarsi degli esiti dell’asta fallimentare».
Due mesi più tardi, la gestione del Sayonara è finita in mano ad alcuni imprenditori siciliani, oggi indagati, Agatino Conti e Francesco Rapisarda, «individuati dall’arrestato Assunto Natale Megna – si legge – in esecuzione delle direttive impartite da Luigi Mancuso». I pm guidati dal procuratore Gratteri non hanno dubbi: da un’intercettazione del 23 novembre 2017 tra il catanese Rapisarda e Giuseppe Fonti (entrambi indagati per concorso esterno), «si ha una conferma che nel 1992, a ridosso delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita i magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, al Sayonara fu svolto un summit di mafia».
Anche le più recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia “avvicinano” il Sayonara al clan. Emanuele Mancuso spiega che il villaggio ha una proprietà formale e una sostanziale perché «in realtà è di mio padre e di Assunto Megna». Megna è detto – sono sempre parole di Mancuso – «“l’uomo dei due mondi” non solo per quanto vi ho riferito in merito all’aiuto offerto da Megna a mio padre nel periodo di latitanza in Argentina e successivo arresto, ma anche perché è riuscito a creare una connessione tra gli uomini dei Pesce e dei Bellocco che operavano in Sudamerica dove lui era detenuto e aveva una causa. Mi riferisco alla persona dei Bellocco-Pesce che ho riconosciuto in foto, in un precedente interrogatorio, che è originario di San Ferdinando, che avevano una fabbrica di scarpe in Sudamerica e che venivano a soggiornare gratis nei nostri villaggi: il Sayonara di Nicotera Marina ed il Sayonara di Joppolo che poi si presero mio padre ed Assunto Megna (…) e lo intestarono fittiziamente a un soggetto straniero. So anche che la concessione del Cliffs hotel è stata data alla mia famiglia».
È Megna la chiave degli interessi dei Mancuso nel settore alberghiero. È anche un uomo con interessi fuori dall’Italia. I suoi “due mondi” spaziano dal Sudamerica alla Spagna fino all’Africa, dove avrebbe avviato attività imprenditoriali nel settore ittico. Sono le parole del figlio pentito a confermare che l’imprenditore «ha importanti collegamenti con diversi paesi esteri e «ha iniziato (per come emerge dalle intercettazioni in atto) a ipotizzare un proprio allontanamento dal territorio nazionale, interessandosi per l’acquisto di una abitazione in Spagna e valutando addirittura la possibilità di trasferirsi a Capo Verde, in Africa, dove gestisce una fitta rete di affari nel settore dei prodotti ittici». Per questo motivo i magistrati della Dda di Catanzaro hanno deciso di intervenire. (p.petrasso@corrierecal.it)
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