Minervino: «Andarsene dalla Calabria dovrebbe essere una scelta, oggi (purtroppo) è un destino»
Analisi e proposte forti dello scrittore e giornalista: «Manca il lavoro, ci sono comunità avvilite. Ma la ‘ndrangheta spesso è un alibi»

Analisi e proposte forti per la Calabria del futuro. Questo è l’oggetto di “Cantiere Calabria”, la nuova rubrica del nostro Corriere che da oggi e per i successivi venerdì, fino al prossimo 8 settembre, punta a stimolare e raccogliere il punto di vista di intellettuali, artisti, imprenditori, economisti e altri esperti sul mancato sviluppo della Calabria e soprattutto su come la regione possa uscire dalla storica condizione di debolezza, minorità e isolamento.
Oggi tentiamo di andare al cuore di questioni di peso: l’etica della politica; il dramma delle infiltrazioni e degli scioglimenti dei Comuni per ’ndrangheta; il ruolo dell’università; la tutela e la valorizzazione dei beni culturali; l’inquinamento dell’ambiente; le grandi utopie maturate in Calabria; l’identikit del politico riformista; il senso della libertà individuale. Lo facciamo con un’intervista senza filtri a Mauro Francesco Minervino, professore di Antropologia culturale, Etnologia e Sociologia dei nuovi media nell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, fine scrittore, firma del Corriere della Sera, già vincitore del “Premio internazionale di Filosofia Karl-Otto Apel”e del “Premio nazionale Umberto Zanotti Bianco” per la qualità del suo impegno di antropologo e scrittore e per i suoi contributi di studioso ambientalista e meridionalista.
Professore Minervino, nei giorni scorsi un’inchiesta della Dda di Catanzaro ha rimesso pesantemente in discussione la politica locale. Al di là di come andrà a finire nel penale, dalle indagini emerge ancora una volta un costume tipico, un ethos della politica nostrana. In Calabria non c’è o non può esserci l’alternativa?
«Lo scrittore Corrado Alvaro, spesso citato a sproposito o per consolazione intellettualistica su questioni calabresi, scrisse questo illuminante distico nel 1925: “Mi fu sempre difficile spiegare che cos’è la mia regione”. A distanza di un secolo le cose si sono fatte persino più ingarbugliate, e neanche possiamo immaginare Alvaro alle prese con le possibili spiegazioni della complessità, ancora più caotica e confusa, aumentata a misura dei tempi, con la convergenza micidiale dei fenomeni che abbiamo davanti nell’attualità. Già nel libro “La Calabria brucia” (2009), avevo definito quella calabrese “la mafia perfetta”. La “più ricca e più potente del mondo”, che insieme alla politica collusa e stracciona che governa questa regione ha creato un solido e oliatissimo “sistema di scambio ‘cazzi miei/cazzi tuoi’”, con cui domina “senza oppositori la regione dichiaratamente più povera, disperata e disamministrata d’Europa”. E la politica buona? C’è, ma è diluita in dosi omeopatiche. Il resto è assente o peggio latitante, tutto piegato con rare e virtuose eccezioni alle convenienze, alle clientele, alle corruttele, se non al voto di scambio. La realtà della regione appare sempre più come un distillato di emergenze economiche e sociali: sanità, trasporti, istruzione, infrastrutture, ambiente. Certo, qualche intervento è stato fatto, soprattutto nell’azione repressiva della delinquenza organizzata, e siamo grati per questo ai magistrati in prima linea nella lotta al crimine organizzato. Tuttavia, la realtà territoriale diffusa è in profondo degrado; i piccoli centri, abbandonati a sé stessi per i tagli o la soppressione dei servizi essenziali, scuola e sanità, vanno lentamente scomparendo svuotati da disagi ed emigrazione. I giovani vanno via; certe strade dei paesi costieri sono incubi da Terzo Mondo; le classi dirigenti e le élite urbane sopravvivono in feudi autosufficienti e parassitari; stili di vita pretenziosamente consumistici e affluenti convivono con sacche di povertà e divari sociali da Terzo Mondo; le città capoluogo vivono una vita asfittica e un provincialismo ottocentesco virato in esibizionismo catodico e digitale; le scuole dell’obbligo di anno in anno vengono soppresse, e, anche dove si lotta in prima linea contro le ’ndrine e il malaffare politico, l’organico della Procure è stato ridimensionato pesantemente, nonostante le crescenti pressioni della ’ndrangheta e la corruzione di politici e amministratori infedeli. In un quadro così difficile e opaco, per costruire un progetto di alternativa democratica di questa regione non può bastare il ruolo di guida di pochi illuminati, l’egemonia professorale delle élite culturali, la proposta autoconsolatoria dei “sensibili”, come spesso di sente dire: le alternative serie in politica vanno costruite ed elaborate in forme partecipate e consapevoli, magari anche fuori dai partiti tradizionali – da noi ridotti a organismi antidemocratici e rappresentanze di grovigli di interessi impresentabili –, ma insieme alla società, che da noi è debole e rattrappita, e certo non si inventano da un giorno all’altro. Il tema è quindi chi costruisce l’alternativa e per chi, e quanta partecipazione attiva di cittadini, associazioni, gruppi sociali, sindacati organizzazioni di base, queste alternative possono o vogliono mobilitare e raccogliere per contribuire tutti insieme alla costruzione di un cambiamento reale e duraturo».
Il recente scioglimento del Consiglio comunale di Rende è stato alquanto vissuto come qualcosa di normale e perfino di inevitabile. Tra i più giovani il fatto ha invece suscitato molta amarezza, al punto che qualcuno di loro ha espresso sui social il desiderio di scappare dalla Calabria, di andare via, di cercare fortuna e spazi democratici altrove. Perché le masse si adattano, nella nostra regione, a ciò che passa il “convento”? A Rende, poi, ha sede l’Università della Calabria, che dovrebbe essere luogo di emancipazione culturale, politica, sociale. Qual è il suo punto di vista nel merito?
«Una sensazione molto triste. Cosenza, il municipio capoluogo di provincia discute da tempo sulla costituzione della “Grande Cosenza”, una nuova città metropolitana, e la politica si misura sulle scelte più convenienti per giungere a forme di unione e di consolidamento amministrativo tra i centri contigui e ormai conurbati di Rende-Cosenza-Castrolibero-Montalto. Ma sembra una questione che galvanizza per ora solo i ceti politici, interessa i giri di poltrone, le opportunità speculative, il posizionamento nell’ambito di nuovi assetti geopolitici. Riguarda poco la gente, gli attori sociali, i territori, le nuove infrastrutture, le politiche ambientali, i servizi necessari. Questo spiega anche la crescente pressione dei gruppi di interesse e delle organizzazioni criminali sui municipi. Come nel caso di Rende. In mezzo a questi territori fragili sorge anche l’Unical, che a me sembra ancora avulsa dai processi necessari alla crescita civile di questi contesi e dalla vita concreta di questa società alla ricerca di una forma. Infatti, i fenomeni criminali incontrollati che vi si sviluppano intaccando anche la vita democratica e amministrativa delle istituzioni locali ne sono la prova. Nello stesso tempo, l’università sembra aver ridotto il suo prestigio e la sua autonomia, un compound tra i tanti disseminati in un’area territoriale in pieno caos, presa in mezzo e limitata anche nelle sue funzioni più nobili di orientamento e di indirizzo generale. Per inciso, è inutile appellarsi alle eccellenze, se restano confinate nel campus. L’Unical, come istituzione fondamentale per la crescita della società e come motore attivo di cambiamento culturale e di conquista di nuovi diritti di cittadinanza, è ostaggio della crisi di identità di questo territorio, che è diventato, e per ora resta, un’enorme periferia senza centro. Un luogo senza identità e prospettive, anche politiche e amministrative».
Sembrano due le narrazioni dominanti in Calabria. Prevalgono i racconti sulla forza della ’ndrangheta e sull’autoreferenzialità delle istituzioni pubbliche o delle imprese private. Dominano in certo modo l’apologetica della criminalità e una diffusa retorica dei territori, accompagnata da un’esaltazione del “prodotto” calabrese, anche se soltanto di mere origini. Possibile che non possa esistere un’altra ricostruzione, critica e insieme costruttiva?
«Io ci provo da anni ormai, con i miei libri e i miei interventi pubblici, a tentare di raccontare una regione complessa, con luci incoraggianti e ombre, queste, è vero, profondissime e oscure; a raccontare una realtà che non è il luogo di tutte le apocalissi ma nemmeno il paradiso in Terra. Un luogo del mondo di oggi, così com’è il mondo di oggi. Con una specialità: sorprendentemente, le sfumature e i chiaroscuri della Calabria di oggi, la sua mescola di antico e post-moderno, ne fanno una terra di confine e di sperimentazioni, ricca di colpi di teatro, di drammi sociali, di prepotenze esasperanti, prodiga di aberrazioni e paradossi sottilissimi e spiazzanti ma, a mio modo di vedere, tutti dentro la riflessività del contemporaneo e spiegabili con le sue accelerazioni e i suoi movimenti disordinati. Spesso quello che accade da noi si scrive Calabria ma si legge Italia. È rivolto, a partire da qui, al paese che si agita impazzito nella normale e mostruosa complessità della nostra difficile congiuntura repubblicana. Una sorta di laboratorio antropologico avanzato, spesso in anticipo sui tempi, con fenomeni la cui investigazione è sempre più necessaria per sfondare i limiti, per comprendere meglio le sorti dell’Italia intera, e non solo la fisionomia in trasformazione della nostra società e del nostro paese, io credo».
E la Calabria come si racconta, secondo lei?
«La Calabria non ama raccontarsi nei suoi contrasti, disambiguare, vederci chiaro, dirsi la verità. Nelle sue rappresentazioni ama invece la mimesi, e continua a lasciarsi intrappolare da comodi luoghi comuni, dalle esagerazioni, dalla dismisura retorica, dalle iperboli che ne allontanano la conoscenza critica: ne è zeppa la comunicazione pubblica, anche quella intellettuale sempre oscillante tra l’apologetica e il conformismo. Ci piace dipingerci attraverso le categorie della straordinarietà, o paralizzati dagli arzigogoli, dai sofismi che alla fine atrofizzano l’intelligenza del mondo, limitano le capacità di immaginazione e di scelta, oscurano le prospettive e rinchiudono la realtà in nicchie autoreferenziali e fastidiosamente oracolari».
È vero che per affermarsi bisogna andarsene dalla Calabria? Il giornalista Cesare Fiumi si chiedeva perché la Calabria fosse arretrata o depressa. Secondo lei, professore, è colpa della ’ndrangheta o c’è altro? La ’ndrangheta è una buona scusa per la politica?
«Faccenda complessa. Tutta la politica in Calabria è inquinata dall’affermazione di quell’ideologia inveterata per la quale il privato vale più del pubblico, il mercato più dello Stato, il proprietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino, il prepotente più del mite, l’arrogante più del solidale: risultato una nemesi di natura e cultura a cui si è aggiunto il veleno del crescente disordine sociale – il consumo, l’eccesso, l’anomia, la noia – che si mescola all’insicurezza e al pericolo che dominano questi anni di crisi a cavallo dei millenni. Personalmente ritengo che perdurando queste condizioni andarsene dalla Calabria è un diritto sacrosanto; certo non dovrebbe essere un destino, soprattutto per i giovani, ma una scelta, un’opzione tra le altre. Certo per ora non lo è. Manca il lavoro. Il lavoro è altrove. I giovani fuggono via per quello, ma non solo per quello: se ne vanno anche perché intorno hanno il caos, comunità avvilite, l’assedio della noia. Ma allontanarsi non è un male in sé, si può sempre ritornare; oggi il mondo è per fortuna più grande e interessante del limitatissimo orizzonte paesano del passato. I giovani studiano e viaggiano, fanno esperienze arricchenti, conoscono un mondo più grande, più vario. Questo è un bene, incrementa le conoscenze, protegge dall’idealizzazione delle radici, dalle nostalgie patologiche. Spesso si idealizza un mondo che in realtà ci respinge e a cui ci ostina a rimanere fedeli. Spesso la ’ndrangheta è un alibi per evitare di ragionare sulla complessità, per guardare dentro la società così com’è, e tentare di mettere le mani dentro il caos di una realtà in cui l’ordine delle cose appare sottosopra».
Tutela, valorizzazione e promozione dei beni culturali e ambientali. A che punto siamo in Calabria, a suo avviso? Che cosa bisognerebbe fare in proposito? Che cosa non è stato fatto? Perché cultura, natura e quindi salute sono spesso considerati, forse soprattutto in Calabria, beni inutili e perfino inattuali?
«Siamo purtroppo ad un punto morto. I giovani laureati in Archeologia, Arti e Conservazione dei beni culturali di questa regione migrano altrove. Qui l’archeologia è ancora considerata una sorta di danno collaterale delle speculazioni edilizie, non una ricchezza identitaria da tutelare e valorizzare. C’è bisogno di investimenti e di maggiori controlli, di più concreti e ben mirati progetti e programmi dello Stato, con il potenziamento delle Soprintendenze, una maggiore salvaguardia di territori e risorse, la valorizzazione di storia, tradizioni, aree archeologiche, teatri, centri storici, musei. Una politica culturale seria e intelligente da parte della Regione, a favore di biblioteche, istruzione di qualità nelle periferie e servizi culturali efficienti nelle città e nei centri minori, mentre invece gli assessorati regionali elargiscono a pioggia milioni di euro per bandi destinati ad alimentare il circuito parassitario di festivalini e festivaloni estivi di dubbio gusto e di inutile sporadicità, al solo scopo di favorire clientele, congreghe di protetti e fantasiose e lucrative imprese del cosiddetto “turismo culturale”. Fuffa. Fiammate che durano qualche settimana o due, giorno più giorno meno. Molti paesi e molte piccole comunità rischiano così di essere definitivamente annichiliti e asserviti al marketing, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù, che è il contrario della cultura».
Pitagora, Gioacchino da Fiore, san Francesco di Paola, Tommaso Campanella. La Calabria è stata terra di pensatori, utopisti, santi, eretici. E adesso?
«I filosofi della natura, gli utopisti sociali, i mistici calabresi e molti santi – come Gioacchino da Fiore, Bruno di Colonia e Francesco di Paola – sono stati uomini appartati e riflessivi ma capaci di creazione, di pensare il mondo, la logica della natura, i meccanismi sociali; quasi tutti montanari ed ecologisti ante litteram. Spiriti sensibili all’armonia e al bello naturale, erano uomini originari dei monti e asceti della vita silvestre. Vivevano da sapienti a contatto con boschi e acque, e nell’unità con la vita di piante e animali traevano beneficio senza sopraffazione. I sapienti e i santi della Calabria amavano la natura frutto della creazione divina e le foreste ombrose e fresche di cui si erano fatti essi stessi custodi con monasteri e santuari incastonati tra i boschi e le valli. La nemesi del contemporaneo in Calabria sembra aver scacciato dalla memoria e dalla storia anche queste figure della cura, queste àncore religiose di sensibilità antiche, questa umile e saggia religione della natura, della bellezza, dei luoghi del creato».
Professore, quali sono le cinque priorità della Calabria?
«Mi fermo a una. Non arrivo a cinque, per me ce n’è una di priorità che è fondamentale e improrogabile, al di sopra di tutte: quella ambientale, più complessa e riassuntiva di tutte le altre che affliggono questa regione. Alludo a un dissidio che si manifesta brutalmente nell’accaparramento e nell’abuso continuo consumato ai danni di risorse pubbliche e di beni indisponibili del paesaggio, della natura, della storia. Quindi ai danni di tutti, di ogni cittadino di questa regione. È la pratica abitudinaria di una limitazione generale della libertà a favore del prepotere delinquenziale che ricorre all’accaparramento sistematico delle risorse, allo sfruttamento, alla speculazione abusiva, agli incendi, all’inquinamento delle coste e del mare, alle discariche di scorie e veleni, allo sfregio della bellezza. L’aggressione continua all’ambiente e al paesaggio da noi è il frutto avvelenato di una modernità che si nutre di un’ideologia apocalittica e distruttiva che fomenta il disprezzo della memoria, della natura e dell’arte, della bellezza e vivibilità dei luoghi collettivi a favore del mercimonio e del consumo privatistico che ha elevato l’elusione e l’abuso a norma e consuetudine di vita quotidiana, in una pratica sociale dello spazio comunitario e di svilimento delle relazioni umane ormai largamente piegata a forme di scelleratezza criminale e a condotte di vita contrarie alla salvaguardia del patrimonio pubblico e al rispetto delle leggi. A cominciare da quelle a tutela dell’urbanistica, della sostenibilità ambientale, della tutela del paesaggio. Invertire la rotta è un compito che spetta ai calabresi, a tutti i calabresi, e non ci sono alibi».
Quali caratteristiche dovrebbe avere, lo chiedo a lei che è un antropologo, il politico capace di rivoluzione e riformismo in Calabria?
«Aspettarsi la salvezza dalla politica, o da un politico, è un errore. È una visione del passato. In Calabria regge ancora. Forse perché la nostra società è ancora debole, priva di autonomia e di forza propria, e la politica è ancora considerata una risorsa. Dalla politica ci si aspetta soluzioni, mentre invece sempre più spesso è da lì che viene il problema. Quanto potere abbiamo davvero ancora per decidere, noi come cittadini? Che cosa sono e chi rappresentano davvero i partiti politici oggi sulla scena? La politica si autoprotegge ed è inutile e ingenuo aspettarsi che si autocorregga da sola. Non è più questione di partiti, di schieramenti, di dialettica tra maggioranza e opposizione. Il partito trasversale, quello dei poteri obliqui che controllano questa regione in cui niente è mai come appare, si stringe intorno ai privilegi comuni, alle ricchezze, alle rendite maturate da una posizione di predominio che non ammette più controlli e ricambi democratici, e così tutti insieme gridano al complotto dei magistrati, ai piani sovversivi dell’antipolitica, alla prepotenza delle cosche che sottraggono ormai pezzi di regione al controllo dello Stato. Caratteristiche che dovrebbe avere, mi chiede, un politico capace di rivoluzione e riformismo?Uno pensa subito all’onestà. Ma l’onestà in politica è una precondizione, una base di partenza civile, non sufficiente ma necessaria, fondamentale. Ma sono poi necessarie in pari grado competenze, capacità reali, lungimiranza, un’idea forte, una visione del mondo, essere in grado di mettersi in ascolto, e prima di tutto la responsabilità di sentirsi parte di un orizzonte comune. La politica si fa per questo non per altri scopi. Il resto lo devono fare i cittadini, cittadini attivi e consapevoli, che si sottraggono finalmente alla condizione di sudditi o di complici. I politici sono né più né meno che lo specchio di chi li elegge. Cittadini attivi e consapevoli promuovono buoni politici, i calabresi non ne sono stati capaci, sino ad oggi, e temo che sarà così ancora per molto».
Quali sono i condizionamenti di cui l’individuo e la società dovrebbero liberarsi in Calabria?
«Mollare senza rimpianti le zavorre di un certo passato. E ripartire dalla conquista di un compiuto orizzonte di libertà, una meta che valga per tutti e per ciascuno. La nostra è una regione che non ama la Libertà, quella vera. Tutto comincia da lì». (redazione@corrierelcal.it)