«I luoghi sono simboli. Simboli, per me […], di libertà dalle catene delle sovrappopolate comunità umane […], o più semplicemente, di libertà dalla prigionia della vita adulta e di evasione nel dimenticato mondo dell’infanzia […]. Sono convinto che l’uomo abbia molto sofferto per la separazione dalla natura e dalle altre creature viventi». Così scriveva nel 1960 lo scrittore e viaggiatore britannico Gavin Maxwell in un libro cult per la mia generazione di appassionati naturalisti ed esploratori: “L’anello di acque Lucenti” (Rizzoli), in cui l’autore racconta della vita trascorsa insieme ad alcune lontre, da lui adottate, in una zona sperduta delle Highlands scozzesi. Così è anche per me. Non sopporto le città, neppure quelle piccole. Rifuggo dalla vita urbana, dalla gente raggruppata, dai comportamenti omologati, dal vitalismo sfrenato, dalla bulimia di informazioni, che caratterizzano ormai la civiltà dell’uomo contemporaneo. È per questo che passo tutto il mio tempo libero fra la mia casa in un bosco (che nessuno vorrebbe e dove nessuno si sognerebbe di vivere) e le zone più interne e remote delle montagne della Calabria (dove quasi nessuno ha voglia di inoltrarsi).
Penultimo mercoledì d’agosto. Lorica, in Sila, è ancora addormentata, quando Roberto ed io ci incamminiamo, soli, nella grande selva che risale verso le montagne alle sue spalle. Sarà una vera “erranza claustrale”, come quelle che fanno i monaci certosini un giorno la settimana e che chiamano “spaziamento”: cammino, meditazione, preghiera. Ho con me gli stralci sgualciti delle mie carte topografiche: ho tracciato un percorso ideale nei luoghi che voglio ri-vedere dopo anni. Partiamo da Torre del Cavaliere, l’antica costruzione che campeggia ai margini della strada, a ricordo della Sila d’un tempo, quando solo nella buona stagione signori, pastori e braccianti sciamavano dalle pianure crotonesi. Saliamo lungo la pendice di fronte alla torre, raggiungendo il crinale. Poi cominciamo a seguirlo verso nord-ovest, inoltrandoci in una splendida fustaia di pini. Passiamo accanto ad una pista da sci e poi di nuovo nella foresta. Nell’ombra improvvisa fatichiamo a mettere a fuoco le immagini inattese di pachidermi dormienti: rocce su rocce, rupi su rupi, affastellate, spaccate, trafitte da pini che affondano le radici nella pietra. Esploriamo incantati il labirinto di rupi. Poi, ancora increduli, riprendiamo il cammino.
Lungo il percorso muretti a secco: perfino quassù, a 1650 metri di quota, un tempo si coltivava qualcosa. Sino a che non sbuchiamo sugli ampi pascoli di Marinella di Coppo: chiazze d’oro fuso sotto il cielo blu cobalto. Una poiana rotea nel cielo intonando il suo mesto pigolio. Decido di tornare per un’altra via. Voglio vedere il bosco sui fianchi di Serra Magnaudo. Ci infiliamo in una valletta ad est che scende nuovamente in foresta. Imbocchiamo poi un camminamento lungo l“acquaro” segnalato sulle mappe, che sarà nostro compagno di viaggio sino alla fine. Le dimensioni dell’antica condotta d’acqua oggi dismessa sono ulteriore indizio di quanto fossero umanizzati anche i vasti tenimenti a nord della valle dell’Arvo. Il lungo “sentiero dell’acquaro” è interrotto solo da una sequela infinita di ruscelli: le “acque lucenti” del libro di Maxwell, limpidi, gorgoglianti nastri d’argento fuso che fluiscono dalla “serra” sopra di noi per tuffarsi verso il Torrente Cavaliere e poi nel lago. Poi d’improvviso, altri pachidermi, del tutto inattesi. Questa volta svettanti, contorti, dalle sembianze mostruose. Sono una schiera infinita, apparizioni ripetute, meraviglie che mozzano il fiato di noi “dendronauti” (la dendrologia è la branca della botanica che studia le piante legnose): pini portentosi (ma anche qualche faggio), titani che artigliano la terra e trafiggono come lance la volta della foresta. Di un pino misuriamo la circonferenza: sei metri e venti centimetri a petto d’uomo! U folto gruppo, per quel che è a mia conoscenza, completamente inedito, di almeno una cinquantina di piante sui fianchi dell’acquaro (ma molte altre ve ne saranno nelle immediate vicinanze, che noi oggi non possiamo cercare). Non hanno nulla da invidiare ad altri gruppi più noti di alberi monumentali della Sila: i Giganti di Fallistro, quelli di Gallopane, quelli di Cozzo del Pesco, quelli di Caporosa. È così che questi portenti della natura saranno per me per sempre “I Giganti di Lorica”. Finito l’acquaro scendiamo gradualmente in una magnifica ontaneta. Lungo l’ennesimo, copioso ruscello altri incredibili alberi monumentali, questa volta ontani neri.
Ritornati all’auto, dopo almeno sei ore di cammino, passiamo a salutare gli amici di Lorica: Noemi Guzzo, Michele Puntillo ed altri. Il villaggio è ormai avviato a divenire località turistica di pregio, con tante iniziative intelligenti che provano a scardinare gli stereotipi del turismo di massa (che pure, in Calabria, ed anche a Lorica, sarà sempre, ineluttabilmente presente). E penso ad un altro libro prezioso, quello che una straniera, la sociologa Renate Siebert dedicò nel 1996 proprio a “Lorica” (Rubbettino): una preziosa raccolta di testimonianze di coloro che videro sorgere il villaggio nella sua forma odierna, dopo la grande trasformazione dovuta alla realizzazione del lago e a quella della riforma agraria degli anni Cinquanta.
Scrive l’autrice, che ha scelto Lorica come suo rifugio: «A Lorica sono felice […]. Le luci, gli odori e i rumori di questo luogo incantato, su di me, hanno l’effetto di un balsamo. Sono curativi, ma anche eccitanti. Mi danno energia e, nel frattempo, riposo. […] Per me Lorica rappresenta una sorta di scrigno magico, un mio piccolo Tibet». Ecco, oggi Roberto ed io abbiamo avuto il privilegio unico di sollevare delicatamente, in punta di piedi, nella solitudine e nel silenzio, l’ennesimo scrigno segreto della Sila e del suo meraviglioso parco nazionale.
*Avvocato e scrittore
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