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la ricostruzione

Ecco come è morta Maria Chindamo. «Uccisa e data in pasto ai maiali»

Le dichiarazioni dei pentiti e il coinvolgimento di Salvatore Ascone. «Fu ritenuta dai familiari del marito responsabile del suicidio»

Pubblicato il: 07/09/2023 – 13:19
di Fabio Benincasa
Ecco come è morta Maria Chindamo. «Uccisa e data in pasto ai maiali»

COSENZA Sette anni scivolati via nel silenzio, nella sofferenza di una famiglia distrutta dalla scomparsa di Maria Chindamo: una ferita aperta nel cuore di un territorio quello vibonese piegato dalla ingombrante presenza della ‘ndrangheta, quella più feroce e brutale, che soffoca territori e sotterra la speranza. Il 6 maggio del 2016 Maria Chindamo, imprenditrice originaria di Laureana di Borrello, viene rapita e uccisa dalla criminalità organizzata. Il suo Suv bianco resta acceso davanti i cancelli della sua proprietà, della donna si perdono le tracce. E’ l’odierna inchiesta della Dda di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri e denominata “Maestrale-Carthago” a riaccendere i riflettori sul caso. Salvatore Ascone detto “Pinnularu” viene ritenuto concorrente nell’omicidio di Maria Chindamo perché «unitamente a suo figlio Rocco Ascone (minorenne all’epoca dei fatti), provvedeva a manomettere il sistema di videosorveglianza installato presso la sua proprietà, limitrofa a quella della Chindamo, in modo da impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà della imprenditrice, fornendo così un contributo alla commissione dell’omicidio della donna, agevolando gli autori materiali dell’omicidio, che operavano sapendo di poter agire indisturbati e con la sicurezza di non essere ripresi e, dunque, successivamente individuati».

Il suicidio di Punturiero

C’è un episodio che gli investigatori ritengono «un punto focale» nel caso Chindamo: il suicidio del marito Ferdinando Punturiero. «Dal carattere tendenzialmente accomodante e dai tratti bonari», l’uomo «subiva pressioni da parte del padre affinché gestisse la propria famiglia rifacendosi a meccanismi relazionali tradizionalistici». Il matrimonio di Maria Chindamo e Ferdinando Punturiero va in crisi, è il 2014. La donna matura la volontà di separarsi e dal gennaio 2016 si lega sentimentalmente ad un altro uomo. Punturiero cade in depressione e tenta il suicidio (avvenuto nell’aprile del 2015), per poi togliersi la vita l’8 maggio 2015. Maria Chindamo «fu ritenuta dai familiari del marito responsabile del suicidio». L’analisi delle acquisizioni fondiarie ha evidenziato come la donna si fosse resa protagonista di un’acquisizione patrimoniale “totale”, a livello di terreni e di impresa, originariamente riconducibili alla famiglia Punturiero, sia per via del decesso del marito (da cui non era formalmente separata) sia per via della donazione di alcuni terreni effettuata dal suocero in favore dei nipoti.

Ferdinando Punturiero

L’attività d’indagine ha consentito di ricostruire gli «incontrovertibili rapporti» di parentela tra la famiglia Punturiero e la famiglia ‘ndranghetistica dei Bellocco di Rosarno. L’inchiesta prosegue ed emerge l’interesse della cosca Mancuso di Limbadi nell’acquisizione terriera e in questo contesto si inserisce la figura di Salvatore Ascone. La porzione di territorio della località “Montalto” collocata al confine delle province di Reggio Calabria e Vibo Valentia è oggetto di una coesistenza di interessi da parte delle due cosche: Mancuso e Bellocco-Cacciola. «Esponenti della cosca Mancuso hanno affidato ad Salvatore Ascone il controllo criminale della località “Montalto” dove si occupa di acquisire i proventi estorsivi delle compravendite dei terreni e di gestire con metodologie mafiose quella porzione di territorio nonché i rapporti con i relativi proprietari».

I minuti precedenti la scomparsa

Chi indaga, ripercorre gli istanti precedenti la scomparsa di Maria Chindamo. La mattina del 6 maggio 2016, l’autovettura in uso alla imprenditrice fu trovata in contrada “Carini” della Località Montalto del Comune di Limbadi (in provincia di Vibo Valentia), abbandonata davanti al cancello d’ingresso della sua azienda agricola, ancora chiuso. L’auto è aperta, con il motore ancora acceso e l’impianto stereo a tutto volume. Ma della donna non c’è traccia solo una vistosa macchia di sangue sulla fiancata sinistra della carrozzeria dell’auto e sull’area circostante. Saranno rinvenuti nella vettura anche la borsa contenente circa 1.000 euro e gli effetti personali della vittima. Le indagini partono subito dopo la denuncia del fratello di Maria, Vincenzo Chindamo. L’area è presidiata dalle forze dell’ordine, impossibile non notare un immobile rurale riconducibile a Salvatore Ascone all’interno del quale era installato un sistema di videosorveglianza, visibile dall’esterno ed in posizione ideale. Quella telecamera poteva contenere i frame dell’agguato, i volti dei responsabili. Già poteva, perché quella telecamera non era in funzione. Un particolare, che sin da subito ha destato perplessità e suggerito agli investigatori un ulteriore approfondimento. Che oggi ha portato ad un epilogo.

Il Dvr e la mancata registrazione

E’ lo stesso Salvatore Ascone, sentito subito dopo l’accaduto, a fornire spiegazioni in merito al mancato funzionamento dell’impianto di videosorveglianza. «La mattina della scomparsa della signora sono arrivato sul posto verso le otto ed un quarto. Gli operai sono arrivati dopo di me, ma non entriamo dal cancello che sta davanti casa perché utilizziamo quello che sta a monte, cioè verso Limbadi. Io da solo mi sono avvicinato dove stavano i carabinieri per vedere cosa era successo». Constatata l’impossibilità di estrarre i filmati di quella mattina, viene chiesto l’intervento del tecnico installatore dell’impianto, che su invito di Ascone, riscontra «che il Dvr, seppur correttamente alimentato, segnalava un errore dell’hard disk non presentando nessun file di registrazione». Il tecnico avrà modo di spiegare come «Il dvr, sebbene alimentato a corrente mediante un alimentatore, avrebbe funzionato anche in assenza di corrente elettrica in quanto dotato di batterie supplementari che ne avrebbero garantito il funzionamento per ulteriori 90/120 minuti. Se si interrompe per qualche motivo l’alimentazione il Dvr riprende a funzionare normalmente una volta che viene alimentato e riprende a registrare secondo le impostazioni di settaggio l’unica anomalia potrebbe verificarsi nella data ed ora del giorno, ma nel caso specifico avendo io sostituito l’intero Dvr non si sarebbe verificato neanche quest’ultima ipotesi e ricordo di aver impostato il Dvr al termine dell’istallazione su data ed ora corrente». La spiegazione è chiara, per chi indaga il sistema sarebbe stato manomesso. Ma da chi? «Le persone che potevano manomettere il sistema erano quattro – secondo l’accusa – Salvatore Ascone, sua moglie, il figlio Rocco Ascone e un operaio» presente nella sua proprietà. E’ lo stesso Ascone a circoscrivere il cerchio delle persone, quando, nelle dichiarazioni rilasciate quando non era ancora indagato, sostiene: «Le chiavi della casa dove sta custodito l’hard disk ce le ho solo io oppure mia moglie. Sicuramente nessuno può aver avuto accesso all’abitazione perché c’è anche un impianto di allarme ed arriva la segnalazione sul telefonino mio, di mia moglie e dell’operaio». Tuttavia le uniche persone «che sono state viste andare verso la proprietà rurale e che avevano la possibilità di intervenire sull’hard disk erano Rocco Ascone e sua madre». La ricostruzione investigativa ascrive, dunque, la responsabilità a Rocco Ascone «di avere materialmente manomesso l’hard disk» mentre il padre, Salvatore Ascone, avrebbe ricoperto il ruolo di «regista della manomissione».

Le dichiarazioni di Emanuele Mancuso

Sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone Mancuso detto l’ingegnere (al vertice di una delle più importati famiglie di ‘ndrangheta,) a confermare l’ipotesi accusatoria della Dda. Mancuso è un elettrotecnico e, per questa sua specializzazione, era intervenuto spesso nella proprietà di Salvatore Ascone «per effettuare delle bonifiche ambientali dalla presenza di microspie». Non solo. Il pentito «aveva una frequentazione pressoché giornaliera con Ascone e la sua famiglia, riceveva incarichi e per la sua posizione di figlio di uno dei più potenti capi della ‘ndrangheta era in grado di recepire, per conoscenza diretta, notizie in merito alle vicende della zona». Emanuele Mancuso non solo conferma di aver frequentato Ascone ma riferisce di aver notato «che era solito monitorare, con sistemi di videosorveglianza, tutti i luoghi dì sua proprietà, sia l’abitazione, sia la casa di campagna, nonché i capannoni ei luoghi in cui aveva beni o animali…Era particolarmente attento al funzionamento di questo sistema, al punto che quando c’erano dei guasti subito chiamava un tecnico affinché se ne occupasse». In relazione al mancato funzionamento delle telecamere il giorno dell’omicidio di Maria Chindamo, Mancuso riferisce di aver appreso da Ascone che nel giorno dell’evento le stesse erano spente: «Lo so perché mi disse lui stesso di avere anche in campagna un sistema di videoriprese e che, proprio quel giorno della scomparsa, le telecamere erano spente» mentre la moglie di Ascone «sentendolo parlare con me di questo fatto, si precipitò a dire che non era vero che le telecamere erano spente, ma che le stesse, in realtà, non avevano funzionato, attribuendo il mancato funzionamento ad un malfunzionamento e non ad uno spegnimento». Nei giorni successivi alla scomparsa dell’imprenditrice, Mancuso confessa di essere stato chiamato da Ascone «a fare delle bonifiche prima presso la sua casa e presso l’immobile che ha in campagna, poi al momento della restituzione delle autovetture in sequestro nella sua disponibilità mi ha chiamato a fare la bonifica». L’indagato nell’inchiesta odierna, avrebbe anche incaricato il collaboratore di giustizia di «rimuovere una videocamera montata dalle forze di polizia, che era posta al bivio Vibo Mileto/Rosarno, dal quale si dovrebbe andare per Limbadi».
La videocamera era posta su un albero di quercia e «non ricordo se ho staccato la telecamera prima o dopo la scomparsa della donna, posso solo dire che Ascone mi ha mandato a smontarla». Mancuso ha avuto modo di riferire in merito anche in merito alla cruenta uccisione della donna. «Rocco Ascone mi disse che, in 20 minuti, i maiali si erano mangiati il corpo della donna e che avevano poi triturato i resti della ossa con una fresa o con un trattore. Questo racconto mi fu fatto qualche tempo dopo la scomparsa della donna».

Le altre dichiarazioni dei pentiti

Secondo il racconto del pentito Andrea Mantella, «Diego Mancuso parlò della Chindamo, che aveva una piantagione di Kiwi che non voleva vendere. La piantagione, disse Diego Mancuso, interessava ai suoi parenti, se non ricordo male al genero di Pantaleone detto “Vetrinetta”. Nel discutere dell’argomento, apostrofandola in malo modo, disse che lei era una “tosta” a non voler vendere, mentre il marito era un “babbo” nel senso di bonaccione». In sostanza, l’idea era quella di comprare ad un prezzo stracciato la proprietà della Chindamo per poi darla in gestione per la coltivazione a Salvatore Ascone». «Loro odiavano la Chindamo – continua Mantella – per via della sua ostinazione a non voler cedere il terreno e l’azienda, quando, una volta divenuto collaboratore, ho saputo della sua scomparsa, ho immediatamente ricollegato ed ho pensato: “ecco, se la sono fatta”. Ma questa è una mia supposizione». Decisamente più dure le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Antonio Cossidente. Nel corso dell’interrogatorio del 7 febbraio 2020, riferisce della distruzione del cadavere della donna: «la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali». Nel solco delle precedenti confessioni, si aggiunge anche quella del collaboratore di giustizia Pasquale Alessandro Megna, nipote di Pantaleone Mancuso alias “Scarpurni”. Il pentito narra di un incontro avvenuto tra suo padre e il “Pinnularu”. Quest’ultimo avrebbe confessato quanto riferito anche dagli altri collaboratori di giustizia. «Io, pe quattru sordi, a chija eppi u m’ajuntu ‘ncoju”» (ndr. io per quattro soldi a quella me la sono dovuta caricare addosso).
(redazione@corrierecali.it)


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