Secondo notizie di stampa, un pm di Brescia avrebbe chiesto l’assoluzione di un cittadino bengalese per maltrattamenti alla moglie perché quei maltrattamenti deriverebbero da convinzioni della sua “cultura”. In attesa di capire qualcosa di più su questa vicenda, che appare paradossale, visto che in Italia non esiste una “esimente culturale” della violenza di qualunque tipo, vediamo di non gongolare troppo: il problema della matrice “culturale” della violenza sulle donne è reale e non è solo appannaggio di civiltà diverse da quelle occidentali. Ci stupiamo del fatto che l’omicidio della giovane pakistana Saman Abbas sia stato consumato in famiglia, secondo l’accusa, perché la ragazza rifiutava il matrimonio impostole, ma fatichiamo a ricordare, ad esempio, che ancora nel 1995 a Paternò, in Sicilia, un uomo uccise la sorella Nunziatina Alleruzzo, perché sosteneva che avesse tradito il marito.
In questi giorni i talk show traboccano di invettive contro bengalesi e pakistani, di rimproveri verso la cultura musulmana. Tendiamo così a dimenticare in fretta che gli ultimi efferati fatti di violenza sulle donne hanno avuto per protagonisti degli italiani, perfino minorenni. Secondo l’Unodc (ufficio Onu per la prevenzione del crimine) l’Italia, insieme a Regno Unito, Francia, Spagna e Germania, è fra i primi cinque paesi europei per numero di femminicidi.
Proviamo allora a capire, partendo dalla terminologia mediatica. Siamo davvero convinti che esistano “amori malati” nella violenza di genere? L’amore non è mai malato, perché l’amore, per definizione, è la medicina e non la malattia: l’amore guarisce non punisce. Ciò che chiamiamo “amore malato”, andrebbe definito, più correttamente, “ossessione amorosa”, ossia una patologia psichica che ha a che fare esattamente con una matrice culturale: la distorta percezione della donna come proprietà. Quante volte l’uomo dice alla donna “sei mia” anche nel più normale dei dialoghi amorosi? Un frainteso senso di possesso dell’oggetto d’amore porta a negare la soggettività dell’altro, a ritenerlo, appunto, una “cosa” propria che si può umiliare, mortificare, “utilizzare” a piacimento. In condizioni normali, questa percezione ossessiva si traduce in gelosia morbosa, in rancore, in vendetta. Ma solo nell’uomo – anche occidentale – essa travalica la comune gelosia e si traduce in violenza.
Il perché di questa specificità maschile è, per l’appunto, tutta culturale. Solo l’uomo, infatti, crede di poter disporre a piacimento dell’oggetto della sua ossessione amorosa. E ciò perché egli si sente “padrone” della donna e superiore ad essa quanto a forza. Una forza che nei secoli si è manifestata in mille forme di sopraffazione. Le storie di donne segregate in casa, picchiate quotidianamente, stuprate anche all’interno delle famiglie, usate come schiave, ritenute streghe o psicopatiche sol perché ribelli all’ordine patriarcale e maschilista delle nostre culture di matrice cristiana sono all’ordine del giorno.
A ben vedere, tutte le violenze di genere non sono altro che i rigurgiti inquietanti, presenti in quasi tutte le culture, di un atteggiamento (p)ossessivo dell’uomo verso la donna (qualunque sia la relazione che la lega all’uomo), derivante da una convinzione di inferiorità della donna che la fa regredire da soggetto ad oggetto. Un atteggiamento aggravato dalla forza, che culturalmente “autorizza” l’uomo a disporre a piacimento dell’oggetto della sua (p)ossessione. Ogni mortificazione, ogni umiliazione, ogni violenza, ogni stupro, ogni uccisione altro non sono che riaffermazioni compulsive della cultura del possesso sull’oggetto dell’ossessione amorosa, che sfugge al controllo razionale nella mente del maschio culturalmente condizionato. E le donne oggetto di violenze sono quasi sempre donne che tentano di fuggire dal loro destino di subalternità all’uomo. Secondo Umberto Galimberti (in “Le cose dell’amore”) questo processo culturale ha un nome: si chiama gelosia. La gelosia è una forma di “cannibalismo sentimentale, che vuol divorare l’essere amato affinché nessuno possa più sottrarcelo, e che quando fuoriesce dall’ambito metaforico diventa violenza omicida”.
*Avvocato e scrittore
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