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Il pentito: «Dovevamo uccidere De Rose per vendicare Bruni Jr, torturato fino alla morte»

La confessione di Daniele Lamanna. Che ricostruisce in aula il tentato omicidio dell’uomo del clan Perna. E ricorda Luca Bruni

Pubblicato il: 20/09/2023 – 13:38
di Fabio Benincasa
Il pentito: «Dovevamo uccidere De Rose per vendicare Bruni Jr, torturato fino alla morte»

COSENZA C’è un omicidio che Daniele Lamanna non riesce proprio a dimenticare. L’uccisione del suo “amico” Luca Bruni alias “Bella Bella”, ucciso da colpi mortali sferrati proprio dall’uomo che oggi collabora con la giustizia.

«Mi fatto trasportare dalla corrente»

Il pentito, in tante occasioni, ha avuto modo di parlarne ripercorrendo gli attimi precedenti la trappola mortale confezionata ad arte nei confronti di quello che riteneva a tutti gli effetti un amico. Daniele Lamanna diviene ufficialmente affiliato del clan Bruni nel 2006 quando era recluso nel carcere di Bari. «Prima non ero affiliato, ma comunque ho fatto parte del gruppo Bruni già dal 2002» racconta in videocollegamento mentre rende dichiarazioni – in qualità di testimone – nel processo scaturito dall’inchiesta “Bianco e nero” ed in corso al tribunale di Cosenza. «Sulla morte di Luca Bruni c’è stato un lavoro prima, durante e dopo da parte di persone che avevano ben in mente ciò che poi sarebbe stato – confessa con tono duro – Mi sono fatto trasportare troppo dalla corrente e non ho avuto la fermezza di oggi».

Il tentato omicidio De Rose

Dal veloce flashback legato alla morte del rampollo dei Bella Bella, Lamanna viene sollecitato a riferire quanto di sua conoscenza sul tentato omicidio di Pino de Rose, uomo del clan Perna. Per questo episodio, Lamanna è stato condannato. «Matura nei mesi a cavallo tra novembre-dicembre 2004 e gennaio 200, era il periodo nel quale facevamo rapine ai portavalori. C’era Luca Bruni fuori e venne un giorno insieme con Umile Miceli e aveva deciso con Michele Bruni di vendicare Francesco “Bella bella” jr facendo questa azione contro De Rose». Il 16enne, figlio di Francesco Bruni senior, fu ritrovato senza vita – strangolato con un fil di ferro – in un burrone sotto Montescuro. «De Rose fece da “specchietto” – esordisce Lamanna – Lo prelevò con l’inganno e lui si fidò, mi pare fosse il suo padrino di battesimo. Non so dove lo portò di preciso, ma nel comprensorio di Cosenza e lì lo torturarono fino alla morte». Quell’atroce delitto fu conseguenza di una vendetta trasversale contro il padre della vittima, ritenuto colpevole di aver ucciso Francesco Carelli, 33 anni, pregiudicato di spicco ritenuto affiliato al clan Pranno-Presta
Vendetta chiama vendetta e in seno al clan maturò la decisione di uccidere Pino De Rose. «Io, Luca Bruni, Umile Miceli e Francesco Ripepi parlammo di come dovevamo eseguire l’omicidio. Si decise di fare l’azione quando De Rose si sarebbe recato in una sala giochi di Cosenza che frequentava abitualmente». Il racconto prosegue. «Ripepi ci diede indicazione sulla zona di partenza, una casa diroccata nel centro storico dove eravamo nascosti io e Fabrizio Poddighe (un membro parte del gruppo Tundis)». Quest’ultimo, secondo il pentito, «venne individuato da Luca Bruni che mi disse che era capace e effettivamente potevamo usarlo per fare azione a viso scoperto». Il primo tentativo di uccidere De Rosse però fallì. «Poi si pensò di passare all’azione nella sala giochi. Ripepi chiamò Umile Miceli che era in macchina nella traversa prima della sala giochi». Lo stesso Ripepi «conferma la presenza di De Rose nella sala». Poddighe si sarebbe diretto nella traversa, indossando un cappellino, per colpire il proprio bersaglio. Una pallottola sparata da una pistola a tamburo «colpì De Rose di striscio poi la pistola si inceppò», racconta Lamanna che andò di persona a verificare quanto accaduto trovandosi di fronte De Rose, ferito. La vittima dell’agguato si mise a correre fino a raggiungere viale Trieste. «Nei pressi di una banca di consumò la colluttazione con il suo aguzzino, De Rose riuscì a strappargli dalle mani un revolver facendo fuoco sul rivale». Nonostante la ferita, De Rose – fucile in mano – riuscirà a raggiungere l’ospedale cittadino «dopo aver chiesto un passaggio ad uno sconosciuto» ed essere «fermato dalla guardia a presidio del nosocomio bruzio che gli requisì l’arma». Sulla dinamica dell’accaduto si concentra gran parte del controesame delle difese. Il primo aspetto da chiarire riguarda l’auto utilizzata per raggiungere il luogo dell’agguato. «Si tratta di una Alfa Romeo Coupè – dice Lamanna – Della macchina si occuparono Miceli e Adolfo Foggetti mentre per le armi utilizzammo una pistola calibro 38, una calibro 9 e un fucile a canne mozze». Chi le procurò le armi? Chi le consegnò? Lamanna risponde più volte ai quesiti. «Le pistole le abbiamo procurate tramite gli “Zingari”, i “Banana” e mi furono portate da Miceli mentre a procurare il fucile è stato Massimo Greco detto “malavita” tramite Umile Miceli». E le munizioni? «Le pistole erano già cariche, le munizioni del fucile le ho prese dai “Banana”». La pistola come sostenuto da Lamanna si inceppò per «colpa di proiettili non adatti a quell’arma».
La conferma che il piano omicidiario era fallito, arrivò la mattina seguente. (redazione@corrierecal.it)

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