Lì, dove l’Aspromonte non finisce, ma guada e prosegue fino all’istmo di Lametia, la notte si riempie del cozzo delle spade, delle urla delle carni trafitte, strappate alla vita terrena. È il Torbido il Sagra della gloria di Locri, è Spatari l’aedo sordo e muto che ha orecchie per sentire e bocca per cantare, e dita lunghe, sottili per dipingere e scolpire un futuro che è già stato, che sarà. Le Aquile di Zeus planarono a saziare la sete del fiume col sangue di centotrentamila Crotoniati, e Locri salvò se stessa, ma protesse Reghion, pasto successivo di una schiera di belve che solo gli Dei avrebbero potuto fermare, di quella fame l’afflitta Sibari ne è testimone. E la gratitudine non è un dono da assigere sull’altare dei giusti, mai lo è stato e non lo sarà nel futuro passato. La Krea partorita da Mana Gi, la madre antica Aspromontana, è preda del mondo, la sua Nerò e i simboli della sua gloria, in Bronzo e Marmo, giacciono prigionieri della Sfinge Metropolitana.
Oggi la Locride muore, nessuno dei suoi soldati risorge per mettere uno scudo fra noi e la vergogna.
Moriamo così, senza spargimento di sangue, soffocati dal prezzo del nostro onore, che è costato molto meno di 30 denari.
Esordisce la prima pala gigantesca, nella delicata bellezza delle Tre Arie di Antonimina.
Ci avevano detto che ci avrebbe ucciso la ‘Ndrangheta, ed ecco che ci ammazza il progresso.
In foto il rotore del mulino da 250 mt che andrà a coprire Gerace.
Il contributo di Gioacchino Criaco è tratto da Facebook.
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