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la riflessione

«L’assenza di garantismo nella patria di Beccaria»

Com’è possibile che nella patria della culla del diritto, di Cesare Beccaria, di Pietro Calamandrei, Giuliano Vassalli manchi completamente una cultura garantista? È una constatazione che dura dal…

Pubblicato il: 20/11/2023 – 12:53
di Mario Campanella*
«L’assenza di garantismo nella patria di Beccaria»

Com’è possibile che nella patria della culla del diritto, di Cesare Beccaria, di Pietro Calamandrei, Giuliano Vassalli manchi completamente una cultura garantista? È una constatazione che dura dalla fine della prima Repubblica e che, al di là di ogni principio giuridico di riforme auspicabili, riguarda complessivamente l’opinione pubblica, i media e la collettività. Persino durante il fascismo il famigerato Alfredo Rocco, di estrazione liberale, produsse un codice penale che, rapportato ai tempi e alla situazione politica, aveva molte connotazioni di garanzia. La riforma Vassalli che avrebbe dovuto creare il processo anglosassone con un giudizio terzo fu incompleta proprio per la mancata separazione dei poteri e delle carriere giudiziarie. Ma oltre a questo, ciò che perplime è la rabbia con la quale si reagisce alle inchieste giudiziarie: condanne aprioristiche, nessun dubbio di innocenza per i protagonisti delle indagini, specialmente se si tratta di amministratori locali o uomini politici. Fino ad arrivare all’esaltazione , nei casi più cruenti, di sistemi come la pena di morte che non esistevano nemmeno durante il ventennio e che una cultura giuridica come quella italiana dovrebbe respingere preventivamente. È probabile che la continua crisi economica abbia acuito la rabbia popolare ma la questione non è racchiusa solo nella voglia di forca diffusa. Non perché si debba praticare l’impunità , tutt’altro , ma per preservare quelle condizioni minime di civiltà che si esprimono solo quando si può garantire ogni diritto a chi è indagato, a iniziare dalla presunzione di innocenza. I social sono pieni di fatwe inneggianti a pene capitali, carcere a vita anche da parte di chi, per cultura cristiana e liberale, dovrebbe contemperare il dettame costituzionale della pena riabilitativa. Per qualsiasi segmento si chiedono inasprimenti delle pene. Che non sono quasi mai corrispondenti a deterrenze efficaci nel contrasto al crimine. Un sistema equilibrato assicurerebbe garanzie e rispetto ad ogni parte attiva del processo e prevederebbe sanzioni nei casi di errori dettati da solo e grave colpa. Ci sono magistrati di grande levatura nel nostro ordinamento e altri, storicamente, divenuti eroi brechtiani e poi soggetti politici. Ci sono state, soprattutto sul fronte antimafia e in Sicilia, vere e proprie narrazioni divenute verità nonostante siano state smentite in ambito giudiziario. Ma ciò è accaduto per la scarsa adesione dell’opinione pubblica a quei principi liberali derubricati quasi a inutile opzione. Ricordo il coraggio con cui gli esponenti radicali, portati a Cosenza ad inizi anni novanta dai giovani avvocati guidati allora da Emilio Greco, parlavano di libertà e di rispetto della separazione dei poteri che ormai sono abbondantemente stati valicati. Il difetto della classe politica è quello di interessarsi di questi principi unicamente quando si è coinvolti. E questo è un limite. Perché la magistratura merita tutta la dignità che le conferisce la Costituzione ma non è deputata a governare, né a legiferare. È la stessa magistratura che ha dato martiri per la democrazia in stagioni terribili. Ma che è chiamata a esercitare il suo ruolo nei confini che la democrazia prevede. È un processo culturale oltre che politico che richiede all’avvocatura un coraggio diverso e una presenza più incisiva nel dibattito.

*giornalista

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