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il racconto

La saga dei Florio inizia a Melicuccà

Una storia che inizia dal piccolo centro della provincia di Reggio Calabria, raccontata dal professore Orazio Cancila nel suo saggio

Pubblicato il: 20/12/2023 – 8:51
di Bruno Gemelli
La saga dei Florio inizia a Melicuccà

«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra». Così scriveva Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) nel suo romanzo postumo “Il Gattopardo” (Feltrinelli, 1958).
L’Autore lo faceva dire a Don Fabrizio Corbera, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, senza tener conto che alcuni dei Leoni potessero essere realmente, per diverse generazioni, il sale di cui parlava.
Tra i Gattopardi e i Leoni esisteva, infatti, una sostanziale differenza: i primi riuscivano a vedere solo il glorioso passato che avevano alle spalle, come se la loro stessa storia li ingabbiasse, rendendoli di fatto fiere in cattività prossime all’estinzione; i Leoni, invece, erano affamati, nei loro occhi brillavano le mille opportunità che il futuro gli prospettava, erano dei visionari in grado di rendere concreti i propri sogni, trasformando le avversità in possibilità.
Da qui la famosa frase: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
I Leoni in questione erano i Florio. Grazie alla scrittrice Stefania Auci, che ha pubblicato due volumi sulla saga dei Forio, “I Leoni di Sicilia” (Kindle, 2021), riscopriamo la storia dei “calabresi” Florio.
Il 20 dicembre scorso il Comune di Bagnara Calabra ha presentato “I Leoni di Calabria”, un evento storico-rievocativo che si è avvalso, tra gli altri, della relazione di Rocco Fedele del direttivo dell’Associazione Palingenesi di Bagnara che ha organizzato l’evento con il patrocinio della Regione Calabria.

La storia dei Florio inizia a Melicuccà, piccolo centro della provincia di Reggio Calabria. Questa storia è stata raccontata da Orazio Cancila, (professore emerito dell’Università degli Studi di Palermo, che ha scritto il saggio: “I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale” (Rubbettino, 2020), nel quale si legge come «la più prestigiosa famiglia siciliana del secondo Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, con collegamenti con i più alti vertici della finanza e dell’industria internazionale e rapporti con regnanti di tutta Europa, è espressa molto bene dal sarcastico aforisma degli americani nei confronti di quelle famiglie di immigrati “che iniziarono in maniche di camicia e, nel corso di tre generazioni, si ritrovarono in maniche di camicia”».
«Melicuccà – scrive Cancila -, in greco Μελικοκκᾶς, in greco-calabro Melikukià, è un paesino di mezza collina tuttora esistente sul versante settentrionale dell’Aspromonte, tra Bagnara Calabra, Seminara e Sant’Eufemia d’Aspromonte, a 273 metri sul livello del mare. Nel Seicento, epoca in cui ha inizio la storia, iI nome esatto era Melicuccà del Priorato, borgo che apparteneva, dal 1445, all’Ordine Gerosolimitano.
Qui viveva mastro Tommaso Florio. Su di esso si conosce ben poco, quasi niente. Con certezza si sa soltanto che visse a Melicuccà, nacque dopo il 1650, si sposò attorno al 1680, ebbe almeno tre figli (un maschio e due femmine), morì dopo il 1725, era artigiano, forse fabbro ferraio.
Come vivesse non ci è affatto noto, anche se non è difficile ipotizzare che fosse anche lui un povero cristo, come tanti ce n’erano allora su questo nostro pianeta. Melicuccà non poteva offrire molto a quei tempi: nel corso del Cinquecento si era certamente avvantaggiata dell’espansione della sericoltura nell’intera area meridionale, ma la grave crisi che aveva colpito il settore nel Seicento rendeva difficili le condizioni di vita degli abitanti e giustificava il decremento demografico del borgo
Il figlio di mastro Tommaso, Domenico, nato attorno al 1684, non riuscì più a sopravvivere a Melicuccà, e un bel giorno decise di emigrare nella vicina Bagnara, un comune sotto la giurisdizione feudale dei Ruffo abbarbicato su una ripida costa che si affaccia sul Mar Tirreno, dove già vivevano parecchi altri Florio. Zona franca ed esente da imposte, Bagnara esercitava una forte attrazione sulle popolazioni dell’interno ed era perciò tra i comuni calabresi che meglio resistevano al declino demografico, anzi segnava addirittura qualche incremento, grazie a un’economia basata da un lato sull’intensa attività di un numeroso ceto di comproprietari di feluche, le piccole imbarcazioni con le quali la marineria bagnarese correva i mari e trasportava all’estero i prodotti dell’entroterra (legname, seta, olio, vino, ecc.), e dall’altro su una proprietà fondiaria molto polverizzata e intensamente coltivata a frutteto, vigneto, oliveto e più tardi anche ad agrumeto, che alimentava un’agricoltura molto specializzata e forniva redditi elevati. A Bagnara, Domenico esercitò il mestiere di forgiaro, ossia di fabbro e di maniscalco insieme, anzi più di maniscalco che di fabbro, dato che sino alla seconda guerra mondiale l’attività dei fabbri ferrai nel Meridione consisteva quasi esclusivamente nella ferratura degli animali. E ciò è ancora più vero per Bagnara, dove l’abbondanza di legname, molto utilizzato anche nelle costruzioni di case, finiva col ridurre l’uso del ferro soltanto alla ferratura dei quadrupedi e alla fabbricazione di pochi arnesi di lavoro […]».

Così finisce il racconto del professor Cancila: «A Bagnara intanto la situazione si faceva difficile. La proclamazione della Repubblica partenopea nel gennaio 1799 aveva portato all’assassinio di due noti ‘galantuomini’ locali, il medico letterato Rosario Savoia e il giureconsulto Basilio Messina, indicati come giacobini. Né mancavano altri atti di violenza compiuti nelle campagne da comitive di banditi, con il pretesto di catturare i giacobini e i nemici del sovrano borbonico43. La situazione politica si era appena normalizzata con il ritorno dei Borbone sul trono di Napoli che in ottobre la terra si rimise più volte a tremare nuovamente, creando il panico nella popolazione, che ben ricordava i luttuosissimi eventi del 1783. Fu allora che Paolo Florio dovette maturare l’idea di trasferirsi a Palermo, dove da qualche anno la società Florio e Barbaro gestiva una drogheria e aveva fissato la sede dei propri affari. Con lui partivano anche la moglie, il figlioletto, il fratello Ignazio e quasi certamente anche la nipotina Vittoria, una delle quattro orfane del fratello Francesco. Per i Florio cominciava una favola meravigliosa».
Le conclusioni si possono ricavare da un commento al saggio della Auci: «Dal momento in cui sbarcano a Palermo da Bagnara Calabra, nel 1799, i Florio guardano avanti, irrequieti e ambiziosi, decisi ad arrivare più in alto di tutti. A essere i più ricchi, i più potenti. E ci riescono: in breve tempo, i fratelli Paolo e Ignazio rendono la loro bottega di spezie la migliore della città, poi avviano il commercio di zolfo, acquistano case e terreni dagli spiantati nobili palermitani, creano una loro compagnia di navigazione… E quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende in mano Casa Florio, lo slancio continua, inarrestabile: nelle cantine Florio, un vino da poveri – il marsala – viene trasformato in un nettare degno della tavola di un re; a Favignana, un metodo rivoluzionario per conservare il tonno – sott’olio e in lattina – ne rilancia il consumo… In tutto ciò, Palermo osserva con stupore l’espansione dei Florio, ma l’orgoglio si stempera nell’invidia e nel disprezzo: quegli uomini di successo rimangono comunque «stranieri», «facchini» il cui «sangue puzza di sudore». Non sa, Palermo, che proprio un bruciante desiderio di riscatto sociale sta alla base dell’ambizione dei Florio e segna nel bene e nel male la loro vita; che gli uomini della famiglia sono individui eccezionali ma anche fragili e – sebbene non lo possano ammettere – hanno bisogno di avere accanto donne altrettanto eccezionali: come Giuseppina, la moglie di Paolo, che sacrifica tutto – compreso l’amore – per la stabilità della famiglia, oppure Giulia, la giovane milanese che entra come un vortice nella vita di Vincenzo e ne diventa il porto sicuro, la roccia inattaccabile».

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