REGGIO CALABRIA La ‘ndrangheta, più di altre organizzazioni mafiose, è stato a lungo un fortino difficile da espugnare perché protetto da una rete criminale formata da componenti con stretti legami di parentela. Un potere che come nelle monarchie si tramanda di padre in figlio e sul quale, per questo, è stato sempre più difficile fare luce. Ribellarsi e liberarsi da catene così strette è per molti giovani e donne apparentemente impossibile. Mogli e figli di boss per i quali la strada sembra essere già tracciata, ma che grazie a un progetto nato a Reggio Calabria oggi possono sperare in futuro diverso. Un progetto che adesso è in fase di ampliamento, e che punta sulla cultura e sull’istruzione, perché per essere “Liberi di scegliere” – questo il nome del protocollo – bisogna essere coscienti e consapevoli della strada giusta da seguire, ma anche poter avere gli strumenti per farlo.
“Liberi di scegliere” nasce nel 2012 da un’intuizione dell’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, oggi a Catania, Roberto Di Bella. L’obiettivo è «assicurare una concreta alternativa di vita ai minori provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata o che siano vittima della violenza mafiosa e ai familiari che rifiutano le logiche criminali». Minori, e non solo. Nella rete dei loro stessi compagni e mariti ci sono tante donne che dopo anni di contatto con la violenza criminale rifiutano lo stesso destino per i propri figli. Ed è così che le Istituzioni e associazioni lavorano insieme per far sì che non si ripetano storie come quelle di Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca, sofferenti per il contesto familiare soffocante in cui vivevano avevano deciso di allontanarsi dalle famiglie e di intraprendere il percorso come collaboratrici di giustizia. Torneranno a casa convinte dai familiari che faranno leva sul rapporto con i figli e qui troveranno la morte. Entrambe divorate dall’acido muriatico che saranno costrette a ingerire dai loro stessi familiari. Tita Buccafusca con il figlio in braccio era entrata nella caserma dei carabinieri di Nicotera chiedendo di parlare con un magistrato.
Il protocollo, rinnovato e ampliato dai ministeri di Giustizia, Interno, Istruzione, Università e Famiglia è stato recentemente aggiornato con un incremento dei finanziamenti, un ampliamento della rete di associazioni a sostegno e il coinvolgimento di nuovi uffici giudiziari: a quello di Reggio Calabria si aggiungono quelli di Catania, Palermo e Napoli. Sono circa 150 i minori attualmente tutelati, 30 le donne entrate nel progetto, sette le donne, tra collaboratrici e testimoni di giustizia, e anche due ex boss con ruoli apicali nella ‘ndrangheta e nella mafia che hanno avviato percorsi per proteggere i loro figli. E adesso potrebbe fare da apripista al progetto di una legge per la tutela di minori e madri che escono dai contesti mafiosi. «Su questo servirà una riflessione», ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un protocollo che punta su cultura e istruzione: «Abbiamo processato ragazzi per aver tentato di uccidere madri che volevano separarsi dai mariti mafiosi. – ha spiegato nei giorni scorsi Di Bella – Davanti a questo orrore bisogna intervenire anche con provvedimenti civili. Questo progetto ha intercettato la richiesta di aiuto di molte madri che ci hanno contattato per andare via dalla Calabria e dalla Sicilia. Per gestire questo fenomeno migratorio abbiamo creato assieme a Libera e Cei una rete di accoglienza». «Ho iniziato un’altra vita e sono rinata», ha scritto in una lettera un 14enne che grazie al protocollo è riuscita ad allontanarsi da un contesto di ‘ndrangheta. Affidata ad un’altra famiglia adesso è libera di studiare e scegliere la strada da percorrere: «All’inizio è stata dura, ma adesso sono felice». (m.ripolo@corrierecal.it)
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