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‘ndrangheta vibonese

Gli affari del gruppo Mancuso-D’Amico negli idrocarburi. E il placet dello “Zio Luigi”

Depositate le motivazioni del processo “Petrolmafie” celebrato con rito ordinario. Trent’anni ai due presunti capi

Pubblicato il: 30/05/2024 – 18:19
di Giorgio Curcio
Gli affari del gruppo Mancuso-D’Amico negli idrocarburi. E il placet dello “Zio Luigi”

VIBO VALENTIA Una “sotto-articolazione” della famiglia Mancuso di Limbadi, attraverso la quale «si realizzava l’infiltrazione della criminalità organizzata in attività economiche apparentemente lecite» con particolare riguardo al «settore degli idrocarburi e a quello dell’edilizia». Una “longa manus”, dunque, quasi un ente formalmente distinto dalla pubblica amministrazione, «ma direttamente controllato dal soggetto pubblico e deputato alla realizzazione di interessi pubblicistici», soggetta ovviamente all’influenza della potente cosca dei Mancuso.
A scriverlo nero su bianco sono i giudici del Tribunale di Vibo Valentia nelle oltre mille pagine che hanno motivato la sentenza di primo grado della maxinchiesta “Petrolmafie”. A capo del gruppo e del sottogruppo, il boss indiscusso Luigi Mancuso e quello che è invece definito “trait d’union” Giuseppe D’Amico, entrambi condannati a trent’anni di reclusione.

La “storia criminale” di Luigi Mancuso

Nella motivazioni, inoltre, i giudici ripercorrono la lunga storia criminale dei Mancuso, «fra le varie articolazioni operanti nella Provincia di Vibo Valentia al cui vertice vi sarebbe sin dal novembre 2003 Luigi Mancuso quale promotore, organizzatore, capo e finanziatore del sodalizio con incarichi di decisione e pianificazione delle strategie, degli obiettivi da perseguire e delle azioni delittuose da compiere», scrivono. Luigi Mancuso, poi, sarebbe investito della gestione dei rapporti e degli equilibri con gruppi rivali nonché del compito di impartire disposizioni o comminare sanzioni agli altri associati a lui subordinati. Il “Supremo” Luigi Mancuso, inoltre, ricoprirebbe anche il ruolo di “Crimine” per la Provincia di Vibo Valentia, soggetto, dunque, «riconosciuto dal Crimine di Polsi e che deterrebbe il potere formale e sostanziale ‘ndranghetistico in virtù del suo carisma e degli stretti rapporti con altre consorterie del reggino». Per i giudici, dunque, «Luigi Mancuso, nella sua veste indiscussa di capo del locale di Limbadi, aveva legami con altri gruppi criminali organizzati, sviluppati, questi, grazie alle sue doti diplomatiche e al carisma che contraddistingue la sua figura» scrivono, relazioni che sarebbero meramente il frutto di quella fisiologica costante ricerca di «punti di incontro fra consorterie contrapposte, necessari al fine di evitare inutili attriti e scontri nella gestione del territorio e sulle conseguenti attività illecite».

I rapporti con il gruppo D’Amico

Come è emerso dall’inchiesta e poi in fase dibattimentale, Giuseppe D’amico, Antonio D’Amico, Silvana Mancuso, Francesco Mancuso, Rosamaria Pugliese, Antonio Prenesti, Giuseppe Ruccella e Francesco D’angelo farebbero parte del “sottogruppo” satellite dei Mancuso capeggiati da il “Supremo” Luigi Mancuso. Emblematiche, per il collegio, le acquisizioni relative all’incontro avvenuto il 12 novembre 2018 proprio tra Giuseppe D’Amico e Silvana Mancuso, presso il Bar Cicciò di Vibo Valentia. Quest’ultima lo informava che «Francesco Mancuso, appellato come “mio cugino Ciccio” aveva la disponibilità di un distributore di carburante a Gioia Tauro». A fronte della proposta di Silvana, tendente all’avviamento di un rapporto commerciale con la “D.R. Service”, Giuseppe D’Amico manifestava qualche perplessità, essenzialmente legata all’esigenza di ottenere il benestare di Luigi Mancuso. «(…) devi prenderti la responsabilità tu, glielo dico che sei stata tu però. Che tu lo sappia, parlare chiaro è bello assai (…) per… io…per rompere l’equilibrio per i soldi, no. Per me i soldi sono l’ultima (…) eh, e glielo… eh no, io all’oscuro no», riportano i giudici nelle motivazioni. «È dovere tuo, non è dovere mio. Sarei uno scostumato se apro il discorso, essendoci uno della famiglia diretta…» replicava lo stesso D’Amico che rimarcava l’esigenza di informare lo “Zio”, appuntando l’onere di comunicazione proprio a Silvana Mancuso. Come riportano i giudici nelle motivazioni, dunque, «da un lato la conversazione certifica l’esistenza di una contiguità di Giuseppe D’Amico alla famiglia Mancuso, dall’altro lato, con specifico riferimento al settore degli idrocarburi, offre riscontri in ordine alla conduzione di due affari paralleli». E il riferimento è ai rapporti commerciali tra la “D.R. Service” e L.P. Carburanti, «società riconducibile a Francesco Mancuso e Rosamaria Pugliese», nonché le trattive con i kazaki della Rompetrol. I giudici annotano che la collaborazione tra le due società «offrirà l’occasione per la commissione di numerosi illeciti fiscali, perpetrati attraverso il ricorso alla tecnica della “sovrafatturazione qualitativa”».

«Io mi sento in famiglia»

I giudici nelle motivazioni richiamano un episodio risalente al 16 novembre 2018 nel corso del quale Giuseppe D’Amico «illustrava i termini dell’affare a Francesco Mancuso e Rosamaria Pugliese». In quel caso, infatti, Giuseppe D’Amico, parlando con i suoi interlocutori, spiega: «Non stiamo parlando cliente e fornitore, io non sono il fornitore vostro… Per capirci chiari, qua stiamo parlando in famiglia…». Qualche settimana dopo, il 24 gennaio 2019, nel corso di un altro incontro Giuseppe D’Amico, alla presenza di Francesco Mancuso, Rosamaria Pugliese e Antonio D’Amico, diceva: «(…) ma secondo voi, no… in casa ‘Mbrogghia io posso venire ad imbrogliare? (…) Ricordatevi che io mi sento in famiglia…», scrivono ancora i giudici nelle motivazioni.  
«(…) ne voglio uno… dovete trovare uno pulito che gira… fa queste colonnine in bianco… fate un bonifico… quando arriva a fine settimana ha venduto 2 mila litri… 3 mila litri… e sono 500 euro… 1000 euro… 2000 euro… li mettiamo là, poi vi rendete conto voi che dovete fare… un giovanotto che va camminando, invece di fare danno, lo mettiamo là e gira in questo modo». Secondo i giudici, in questa conversazione riportata nelle motivazioni tra Pasquale Gallone e Giuseppe D’Amico il 25 marzo 2019 emergerebbero le «cointeressenze economiche della famiglia Mancuso nella distribuzione del prodotto petrolifero», scrivono i giudici, manifestando dunque «l’intenzione di assoldare una persona “pulita” per riscuotere settimanalmente i profitti generati dai distributori inseriti nel canale di approvvigionamento dell’organizzazione». (g.curcio@corrierecal.it)

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