COSENZA Dopo quasi mezzo secolo gli speleologi potrebbero tornare nella Regia Salina di Lungro, la seconda miniera più grande d’Europa, dismessa dal 1976 dopo un’attività estrattiva millenaria. Sfruttata già ai tempi dei sibariti – tutta la zona rientrava nella “giurisdizione” della capitale magnogreca dello sfarzo – ma nota dal Neolitico e citata da Plinio il Vecchio, la salina quando era nel pieno dell’attività è arrivata a dare lavoro a più di 500 persone: nel secondo dopoguerra è iniziato un declino che passa per i 307 operai censiti nel 1958 e arriva ai 174 del 1968. Negli anni della grande emigrazione il paese si spopola e, con la fine del salgemma, si esaurisce anche la speranza di creare nuove fonti di sviluppo e occupazione.
È una storia silenziosa vissuta nelle viscere della terra, a 300 metri di profondità, che oggi resiste in qualche cognome (Salinari) oltre che nella memoria dei protagonisti e nell’attività meritoria del Museo storico della Miniera di salgemma (Musmsa), grazie al quale il sogno di trasformare un polo di archeologia industriale in occasione turistica e magari di ri-popolamento appare meno irrealizzabile qui a Lungro che in altri posti simili della Calabria (le reali ferriere di Mongiana, nelle Serre Vibonesi, sono un altro esempio). Non solo: è stata messa in salvo gran parte dell’archivio che negli anni bui è stato lasciato nella struttura abbandonata, alla mercé di tarme e agenti atmosferici.
Inaugurato nel giugno 2010, il Musmsa da un anno fa parte della rete dei musei della Sibaritide e del Pollino – grazie all’accordo di valorizzazione stipulato dall’amministrazione comunale con il Parco archeologico di Sibari – e ha da poco ottenuto un finanziamento statale (fondo per il funzionamento dei piccoli musei): Lungro e il suo Museo hanno rappresentato la Calabria a Paestum, lo scorso novembre, alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.
Il centro arbereshe in questi giorni si prepara alla seconda edizione del Salgemma Lungro Festival (in programma dal 13 luglio al 31 agosto), patrocinato dalla Fondazione Italia Patria della Bellezza. Un’occasione per rivivere il borgo che fa parte del Parco nazionale del Pollino e magari tornare ad accendere i riflettori su una storia di riscatto poco nota agli stessi calabresi.
Una epopea di cui si trova traccia, oltre che su qualche sparuta pagina web, in un saggio di Giovanni Sole (“Breve storia della Reale Salina di Lungro”, ed. Brenner Cosenza 1981) e in un più recente romanzo di Costantino Marco (“La città del sale”, Marco editore 2008). Ma già Leandro Alberti descrive la salina di Lungro («In vero è cosa meravigliosa ad entrare in quelle lunghe fongie fatte nelle viscere dell’altissimo monte, delle quali alcune entrano mezzo miglio, et altre uno et più, ove cavano il sale») nella sua cinquecentesca Descrittione di tutta l’Italia. Impagabili le cronache tra il costume e l’analisi sociologica firmate dal grande acrese Vincenzo Padula: «La galleria Fossa Inferiore ricorda l’inferno dantesco. Precipizii sospesi sulla testa, precipizii aperti sotto i piedi, massi enormi di barda che minaccia rovina. Qua gallerie deserte, buie, l’una sull’altra, lì un’aia qual sala di teatro ad archi e piramidi, e pareti intagliate, riflettenti la luce dei lumi sospesi in ogni viottolo; e, per quel labirinto uomini e fanciulli; e massi che rotolano, e colpi di martelli; e rimbombo dei sotterranei… Quale scena pietosa!». E sulle condizioni dei lavoratori: «Il sale è portato fuori sulle spalle di uomini e di ragazzi. I primi ne portano ad ogni viaggio un cantaio attaccato con funi. I secondi estraggono un mezzo cantaio di sterro dentro i sacchi. Quella gente, che arriva all’aria aperta con l’anima in bocca, è commovente. Nella miniera in alcuni punti vi è acqua; manca poi la ventilazione… La miniera ha la sventura di non avere avuto uno sviluppo orizzontale, ma uno sprofondamento a labirinto. Basta dire che vi sono scale a piombo sulle gallerie». Echi verghiani che ritroviamo nel nome dato a uno dei tre depositi: Provvidenza…
Lo storico Giovanni Sole racconta come «fosse invalsa la regola, dietro richiesta degli operai, dell’alternanza nei lavori più pesanti e si usasse un senso di rispetto per i salinari anziani, che dopo parecchi anni di lavoro, venivano impiegati nel settore della distribuzione. In miniera non esisteva, inoltre, alcuno strumento meccanico che rendesse meno gravoso il lavoro degli operai e la “discesa” era incredibile, se si pensa che i minatori dovevano scendere centinaia e centinaia di gradini per raggiungere i cantieri e poi risalire più volte al giorno con i sacchi pieni di sale. I tagliatori, armati di picconi, cunei e punteruoli, tagliavano le pareti del sale ad un ritmo infernale, dato che la loro paga era stabilita in rapporto alla quantità di sale che riuscivano a tagliare».
Ma i salinari erano anche figure tra il pittoresco, il cameratismo e la militanza politica: in una preziosa ricostruzione documentaristica, Domenico Cortese riporta che «le condizioni di lavoro ancora disumane spingono gli operai alla protesta per la salvaguardia della loro salute e dei loro interessi. Si sviluppa nei minatori uno spirito cooperativistico e liberale. Infatti fondano l’Associazione dei Lavorieri Salinari con lo scopo di soccorrere i lavoratori che o per salute o per altri motivi avessero bisogno. Socio dell’Associazione era anche San Leonardo, loro protettore, a cui ogni mattina veniva segnata la presenza e la paga giornaliera. Il primo ad essere chiamato per la riscossione dello stipendio era proprio San Leonardo».
Qualche numero aggiuntivo lo fornisce lo stesso Vincenzo Padula, in riferimento alla “golden age” ottocentesca: «Vi travagliano 670 operai» e in particolare 120 tagliatori, 290 faticanti, e ancora scheggiatori, facchini, maestri (con compiti di falegnameria e muratura nel cantiere in perenne lavorazione), lucieri, caricatori, raccoglitori di schegge, sottocapi. Mentre la direzione della salina è composta da «un direttore col mensile di ducati 543; un controllore con 36; un contabile con 14; un archiviario con 14; un ingegnere con 36; un commesso con 18; un secondo commesso con 16; un terzo commesso con 12; capo-custode con 13 e grana 40; 5 pesatori, e ciascuno ha 15 e grana 40; il capoccia, che distribuisce il servizio, 20,40. Custodiscono oltracciò la salina: 21 guardie nazionali, 8 doganali, un brigadiere e un sotto-brigadiere, che pigliano complessivamente al mese ducati 4.300». Una vera e propria cittadella proto-industriale con diverse centinaia di addetti, tra maestranze e livello amministrativo e dirigenziale.
Ancora Padula: «Nella salina vi lavorano 8 ore; ma, poiché per ciascuna classe e per ciascun operaio è determinato il tempo a cui è tenuto, il più si disbriga con 2 o 4 ore di fatica, e ritirasi a casa. I salinari si contano a vicenda le corna, le frodi ed i difetti che hanno, senza venire a rissa. Dicono arditamente le loro ragioni ai loro superiori. Sono risentiti, frizzanti e mordaci assai. Amano gli stravizi, non curano la moneta e, nella quindicina che son pagati, non badano che a spegnere qualche debito e far festa nelle cantine. Son tutti liberali».
Questo spirito cooperativistico è confermato dall’istituzione, nel 1842, di una “Cassa di Risparmio” per gli operai che prevede aiuti soprattutto in caso di malattia o inabilità al lavoro: durerà fino al 1884 arrivando a raccogliere 300 ducati al mese. Ma anche da una “working class” animata da uno spirito sindacale rarissimo in una Calabria ancora “medievale” per via di un latifondismo quasi feudale. I salinari sono in prima linea nelle lotte per l’Unità d’Italia, molti di loro sono tra i 500 lungresi radunati nel 1860 sotto la bandiera di Garibaldi per combattere i Borbone: la beffa – annoterà ancora Giovanni Sole – è che le loro condizioni peggiorarono proprio sotto i piemontesi, gli stessi che danno alla miniera il titolo di “reale”.
Nel 1880 i salinari scendono, per la prima volta, in lotta per chiedere un aumento salariale e un aumento del personale dei trasportatori. La lotta ha esito positivo: il governo concede un aumento delle paghe e l’inquadramento nell’organico di un notevole numero di operai, scrive Sole. Nel 1901 costituiscono la “Società Operaia Salinaia di Mutuo Soccorso”, che gestisce anche uno spaccio ed è fra le più importanti della provincia, nel 1903 scendono in piazza per difendere un loro compagno licenziato e grazie alle loro lotte riescono a farlo integrare e mandare via i dirigenti della Salina. «Ed è, caso raro per l’epoca, e non solo in Calabria uno sciopero vittorioso – scrive nel 1981 lo storico dell’agricoltura Camillo Daneo –, condotto oltretutto con metodi e forme di lotta “moderni”. Fra gli accusati anche il medico Nicola Irianni, sindaco del paese e consigliere provinciale, che prestava la sua opera presso la Salina, reo di non assistere con cura gli ammalati, di concedere la malattia solo ai suoi protetti e ricattare gli operai bisognosi delle sue cure. Si chiede che l’Irianni venga allontanato. Non è stato così facile in quanto il medico, con tutti i mezzi possibili, cerca di dividere il fronte operaio. Nel 1904 fonda, in contrapposizione a quella dei salinari, la “Società di Mutuo Soccorso Skanderbegï” a cui aderiscono anche alcuni salinari che prima lo avevano sfiduciato».
«La persistenza della memoria familiare e collettiva è minacciata, vacilla, così come i ruderi che si intravedono lungo la strada che collega il centro Italo-Albanese con Altomonte: un patrimonio prezioso eppure incustodito, abbandonato»: è quanto si legge nella presentazione della pagina fb Salviamo la Salina di Lungro, dove periodicamente appaiono messaggi come questo: «Non solo fatica, ma ci sono state persone che hanno perso la vita lì sotto a scavare, poverini… Riportare in vita la la salina di Lungro sarebbe bello anche per la loro memoria, non lasciamo sprofondare tutto». Un luogo virtuale che raccoglie testimonianze soprattutto dei figli di salinari («Fiera di far parte di questo gruppo, mio padre salinaro per 40 anni» scrive Teresa) ma anche documenti video – come uno sciopero generale del 1964 organizzato dal Comitato Pro Salina quando iniziava a intravedersi il declino produttivo del sito –, fotografie d’epoca, memorabilia e ricordi dell’infanzia come quello di Nicola che riporta il commovente racconto del nonno immaginato mentre entra nel suo luogo di lavoro rappresentato come un “mostro dalla grande bocca”.
Il 22 gennaio 1969 un’altra grande manifestazione contro la chiusura, poi gli impegni della politica e una parabola che rivediamo nelle tante vertenze dei giorni nostri: non poteva mancare la commissione ministeriale (che puntualmente non porta a nulla) incaricata di verificare la convenienza dell’attività estrattiva. Il 5 agosto 1976 la delibera dei Monopoli di Stato che sancisce la rinuncia alla concessione mineraria, poi ratificata due anni dopo dal ministero.
E infine i convegni, le accuse, le promesse di rilancio. Una storia tipicamente calabrese: ma senza la potenza dei salinari quelle rivendicazioni oggi sono il sale che brucia su una ferita ancora aperta.
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(Tutte le foto sono tratte dalle pagine facebook Salviamo la Salina di Lungro, Salgemma Lungro Festival e Museo Storico della Miniera di Salgemma di Lungro)
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