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Peppe Voltarelli, da rocker di provincia a «bluesman del Mediterraneo»

Il rapporto con la calabresità e i viaggi in giro per il mondo. Il dialetto? «E’ una forma di geolocalizzarsi nel pianeta»

Pubblicato il: 16/08/2024 – 6:48
di Emiliano Morrone
Peppe Voltarelli, da rocker di provincia a «bluesman del Mediterraneo»

COSENZA «Che cosa è quest’«Onda calabra»? Il brano è tra i più rappresentativi del Parto delle nuvole pesanti e del suo ex cantante (sempre in attività, nda), Peppe Voltarelli, con cui oggi parliamo di Calabria, lingua calabrese, calabresità, provincia come luogo della spinta verso l’esterno, restanza e partenza, architetture Dop dell’incompiuto magnogreco, canzoni d’autore e “Favurìti”, il progetto dell’imprenditore antimafia Antonino De Masi per promuovere alla punta meridionale dell’Italia il coraggio di pretendere dignità e diritti e di valorizzare le risorse del territorio calabrese. Partiamo dall’ultimo lavoro di Peppe, che si intitola “La grande corsa verso Lupionòpolis”, un disco ricco di forza narrativa, maturo e ironico in pieno stile Voltarelli e soprattutto internazionale per la registrazione, le collaborazioni e lo spessore artistico. «“La grande corsa verso Lupionòpolis” – spiega Voltarelli – è un disco nato da un grandissimo desiderio di lavorare con musicisti americani, in particolar modo di New York, che è una città in cui ho suonato tante volte – e avevo voglia di confrontarmi con questa scena musicale. Dopodiché (il disco) è la continuazione di un viaggio musicale iniziato da circa 20 anni, dal mio primo album solista, che mescola la canzone italiana con la scrittura e il pensiero in dialetto calabrese. Quindi sono riuscito a realizzare questo grande desiderio e sono molto felice».

Ascolta il podcast

Che cosa è il pensiero in dialetto calabrese?

«È un’attitudine di pensiero, è una forma di geolocalizzarsi nel pianeta. È un modo di camminare, un modo di muoversi, un modo di vedere le cose e soprattutto è un modo legato a quelle che sono poi le incostanze di partenza di chi è nato, cresciuto durante la adolescenza in Calabria, che è un luogo comunque molto speciale, molto caratteristico. Quindi, pensare in dialetto vuol dire, inevitabilmente, esercitare una prima traduzione. Appena il pensiero si trasforma in parole, c’è la prima traduzione; poi, ovviamente, con la traduzione esiste anche il cambiamento, la trasformazione del pensiero in parole. Quindi, il pensiero rimane forte e spesso non riesce ad essere apprezzato con le parole. C’è un lavoro da fare».

La lingua calabrese per te è stata molto importante: tu hai raccontato il tuo punto di vista sulle cose, i luoghi dell’anima, anche le tensioni del calabrese che va in giro per il mondo, in questa lingua. È così?

«Sì, io ho iniziato a scrivere in calabrese dai primi tempi in cui vivevo all’università, a Bologna. E questa cosa, ovviamente, con gli anni si è inevitabilmente trasformata: è stato sempre un percorso alla ricerca anche di uno stile, perché tu sai benissimo che la nostra lingua ha tantissime koinè. Quindi, ho cercato sempre di favorire una struttura smussata, più affettiva e più semplice; probabilmente, meno arcaica, meno chiusa, anche per inventarmi un po’ questa calabresità unitaria, non di tipo paese o provincia. Quindi, questa cosa è stata un bel lavoro e continua tuttora, ovviamente con la consapevolezza di essere comunque parte di un disegno molto grande, che poi è un disegno letterario, poetico, dell’universo. E il nostro è un piccolo segmento, che però ci restituisce quest’appartenere, questo essere legati a qualcosa che, anche se ormai è diventato molto fittizio, diciamo, però rimane sempre come questo profondo filo sentimentale che ci lega alla nostra terra, alla nostra gente».

Tu sei cresciuto molto, dalle sperimentazioni punk della fine degli anni ’90, poi al tuo percorso da solista; anche la tua presenza in alcuni lavori cinematografici, per esempio di Giuseppe Gagliardi, la tua presenza in lavori teatrali, sino alla vittoria, più volte, della Targa Tenco. Adesso, ti senti un cantautore a tutto tondo per calamitare l’attenzione di un pubblico sempre più esigente?

«Sì, nel senso che mi fa piacere questo tipo di percorso; mi fa piacere di aver compiuto delle tappe importanti, di aver toccato dei punti importanti del viaggio. Ovviamente, sentirsi cantautore, secondo me, è una cosa molto legata alle esigenze di scrittura, alle esigenze del messaggio, a quello che vuoi dire, a quello che vivi e a come tu ti proietti verso l’esterno con il tuo strumento, diciamo, di scrittura o di parola. Quindi, oggi per me la cosa più importante è seguire un percorso, cioè avere un’idea e avere un obiettivo da seguire, camminare cercando di stare sul filo, di non perdermi in inseguimenti inutili. Io seguo praticamente il mio viaggio musicale, che è iniziato come un rocker di provincia che urlava; è diventato un cantare sulle canzoni di Modugno, un cantare sulle canzoni di Tenco, un cantare sulle canzoni di Leo Ferreè, di Silvio Rodriguez, cercando di capire quanto la mia esistenza potesse aderire a questi autori, a queste parole, a questo livello di espressione».

Con una missione?

«Il cantatore ha una missione, una missione di rappresentare qualcosa che si muove, che cammina, che va esule per il mondo e in queste tappe trova dei punti in cui si ferma ogni tanto, in cui riflette, in cui cambia, in cui si trasforma e attorno a sé ha una specie di gruppo di persone che lo aiutano, che lo seguono: dei sodali, delle orecchie pronte a criticare, ad ascoltare, a gioire, a commuoversi per quello che si scrive. Quindi, finché ci saranno queste orecchie è importante essere e sentirsi un cantautore. Quando poi si comincerà a ripetere, poi forse magari è meglio cambiare percorso».

Che ruolo ha avuto nel tuo percorso la calabresità? Hai suonato molto all’estero, ma hai portato sempre la lingua calabrese, certamente anche degli elementi metalinguistici del calabrese. Questa identità territoriale, il tuo essere calabrese, che ruolo ha avuto?

«Ha avuto un ruolo importantissimo, nella misura in cui io dalla Calabria sono sempre scappato e continuo a farlo tuttora. Quindi l’aderire alla mia lingua è un patto profondo di tradimento. Essere calabrese mi ha permesso anche di poterlo tradire il calabrese, di poterlo criticare, come una sorta di intimo patto di famiglia. Per cui, andando via e suonando in tanti luoghi lontani, la terra di partenza diventa sempre più piccola dal punto di vista geografico. Ma, confrontandosi con il resto del mondo, è incredibile come le cose siano vicine, siano simili, siano in continuità. Ti capita di suonare in Madagascar e riconoscere nel panorama della capitale il nostro stile architettonico, il non finito calabrese, i ferri che si puntano sui palazzi. Mi capita di suonare in Québec e di trovare dei luoghi che ricordano un po’ la tua terra, la provincia. Mi riferisco alla provincia perché io sono cresciuto in un paese di provincia. Quindi, per me, l’immaginario di provincia è questa specie di spaesamento che c’è nella provincia. Questo essere nato in un non luogo ti dà la possibilità di guardare al mondo come se il mondo fosse sempre tuo, fosse sempre uguale; è continuo, come se non si ferma mai, questo tipo di continuità territoriale. Per cui è bella questa cosa, perché ti fasentire comunque una sorta di disponibilità ad accettare, a capire, ad osservare il mondo con grande forza e con grande ingenuità, quindi con questa immensa meraviglia che, quando arrivi in un posto mai visto, dici: “Madonna, che mi sta succedendo? Quanto sono fortunato a vivere questo momento”. Questo è un grande regalo della provincia, perché ti fa apprezzare anche che vuol dire vivere nel centro della città, se sei nato fuori».

Quindi, Peppe la provincia non sempre è come una sconfitta?

«No, la provincia l’intendevo più che altro non come punto d’arrivo ma come stato d’animo. Questa idea che dalla provincia ti devi sempre spostare, devi sempre muoverti perché devi andare in un altro posto dove c’è quello che tu cerchi e quello di cui tu hai bisogno. Quindi la provincia come luogo, come proporzione numerica e metrica: questa per me è la provincia: l’idea di immaginare che c’è sempre un altro luogo, forse più importante del tuo, forse migliore, o forse un posto dove ti puoi realizzare. In questo senso, la provincia diventa una specie di motore che ti spinge un po’ più fortedagli altri; è un’ambizione, forse, uno stimolo in più. Poi, tornarci non te lo so dire perché non ci sono ancora mai tornato. Non posso dire di essere sulla scia del nostro caro amico, il professor Vito Teti e la sua restanza, perché, essendo in perenne fuga e in perenne sentimento di paura rispetto al risucchio della provincia, chiaramente non so cosa vuol dire. Magari, quando tornerò anch’io, ti saprò dire».

Ti abbiamo visto, di recente, impegnato in un progetto ideato dal testimone di giustizia Antonino De Masi che si chiama “Favurìti”. Qual è il tuo contributo a questa iniziativa?

«Innanzitutto, mi ha fatto molto piacere essere coinvolto dal professor De Masi, perché ritengo che sia una persona molto interessante, con un belprogetto, diciamo, un progetto di vita, un’esperienza importante la sua. Fa piacere essere al suo fianco e condivido in toto la sua voglia di risvegliare le coscienze ma anche questa sua trasparenza, questa sua semplicità di definire questa idea della dignità come giustizia, cioè come cosa di cui non si può fare a meno. Quindi, condivido in pieno questa cosa; lo faccio con la musica, con il lavoro che faccio io da diversi anni, in quanto la canzone d’autore va anche un po’ difesa, va anche un po’ promossa, va anche un po’ tutelata rispetto al mare magnum dell’avanzare, appunto, dei numeri, del digitale, dello streaming, di queste nuove piattaforme musicali».

E allora?

«E allora la canzone d’autore è l’espressione più autentica, più viscerale, forse meno mediatica di tutte. È come difendere la propria dignità in un Paese dove ci sono probabilmente poche libertà. È un po’ come l’idea del professor De Masi: l’idea che i nostri figli devono crescere con quella certezza di poter vivere in un posto dove c’è tutto quello di cui hanno bisogno, cioè la dignità, la sanità, il lavoro, la libertà. Sono molto contento partecipare a questo lavoro e soprattutto mi interessa anche la parte dedicata alle scuole che ci sarà questo inverno, in cui avremo, spero, la possibilità di fare degli incontri con i ragazzie raccontare un po’ le nostre storie, le nostre esperienze».

Per esempio?

«Una delle cose che racconterò immediatamente, quando ci sarà uno di questi incontri, sarà di quando andai a suonare in un locale nel New Haven, nel Connecticut, in un jazz club, e il proprietario mi disse: “Guarda, qui c’è solo un quibus: only blues”. “Ho capito – rispondo –, io sono un bluesman del Mediterraneo, è nel mio diritto”. Lì, allora, si è aperto un mondo, perché lui era completamente spiazzato da questa cosa, forse non immaginava che nel Mediterraneo esistesse un blues. E allora quella sera è stata per me indimenticabile, è come se avessi raggiunto il primo posto in classifica».

Quali sono i tuoi prossimi progetti artistici, se puoi dircelo?

«Allora, quest’anno sto facendo una cosa molto bella con l’orchestra sinfonica di Sanremo, che è un omaggio a Domenico Modugno in occasione dei 30 anni della sua scomparsa. Si intitola “Voltarelli canta Modugno”; è una produzione originale dell’orchestra sinfonica di Sanremo e in cui io faccio la voce; è un’orchestra di 35 elementi diretta dal maestro Giancarlo De Lorenzo, con gli arrangiamenti di Walter Sivilotti. È un progetto molto bello, che ha esordito a Sanremo l’anno scorso, a Ferragosto, e quest’anno la tournée si chiuderà a Polignano a Mare, che è il paese natale di Domenico Modugno. Questa è una delle cose più belle di quest’anno e poi ci sono tante cose che ancora sono, bollono in pentola ma non hanno una data, diciamo che non hanno una scadenza». (redazione@corrierecal.it)

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