L’aria calda di inizio estate. L’erba ingiallita precocemente. Nelle orecchie il suono dei campanacci. Negli occhi il sole radente sui pascoli. Lampi amaranto di cardi. Ronzare di insetti. L’acqua del Neto sussurra fra i sassi. E poi foreste scure di pini, a perdita d’occhio. Osservo non con gli occhi, ma con un altro organo, intimo, segreto, vicino al cuore. Un senso di libertà m’invade, come un evaso dalla prigione. Siamo prigionieri della civiltà, di un’interconnessione farlocca, che serve solo a renderci tutti uguali, ad obbedire ad ordini inespressi. La parola d’ordine è “ansia”. Ci assillano con catastrofi imminenti, per farci produrre cortisolo e adrenalina, da sedare, poi, con i farmaci. Ecco perché l’andare in montagna per me non è divertimento. È bloccare l’inondazione, piuttosto. È ridurre il ruolo della ragione, ridare fiducia al sentimento. È rammentare Pascal: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”.
La Sila è un dispensatore gratuito di serenità. Se sai pigiare il tasto giusto produrrai i neurotrasmettitori della gioia: endorfine, ossitocine, dopamine, serotonine. Per questo l’ho scelta oggi. Siamo sotto la diga del Lago di Ariamacina. Da qui vogliamo salire, facilmente, verso Monte Volpintesta. Per una comoda stradina, nell’ombra della foresta. Paola e Antonio hanno portato con loro la figlia undicenne, Matilde, una scout che vuole capire, forse, perché i suoi genitori amino così tanto camminare in montagna. Nella foresta di pini, con quella luce solenne così atipica per le foreste di conifere, altrove oscure e severe. Saliamo verso l’alto. Facciamo visita agli alberi giganti che si nascondono sui fianchi del sentiero. Poi, improvvisamente, la vegetazione lascia intravedere un poggio poco lontano, sul quale una mandria di vacche se ne sta a contemplare la bellezza che l’attornia. Cozzo Lillo, dalla cui sommità si gode un paesaggio che potrebbe essere quello della Sila di duecento anni fa: la valle del Garga con i pascoli, le piantagioni e, alle spalle, groppe selvose di montagne, all’infinito.
Proseguiamo a lungo sulla strada di crinale, sino a raggiungere il bivio di Carcarelle. Discuto con i miei amici le opzioni possibili. Spiego le difficoltà di fare un anello anziché tornare indietro per la stessa via. Prevale il piacere della scoperta: il sentimento si batte tenacemente contro ragione, come nel romanzo di Jane Austen. Scendiamo giù, a lungo, verso il fondovalle del Neto, dove passa la strada per Germano. Ulteriore scelta da fare: trasferirci sulla sponda opposta e seguire la comoda rotabile asfaltata o rimanere da questo lato della valle e cercare i vecchi sentieri, che però, avverto, sono complicati da recinzioni, guadi, pantani, rovi. Paola e Matilde scelgono la via più complessa. Scacco matto alla ragione! Mentre procediamo mi accorgo che tutte le difficoltà che avevo previsto sono presenti, anzi aumentate rispetto all’ultima volta che sono stato qui. Intanto nelle prime ore del pomeriggio il sole picchia duro. Per un momento vorrei imporre a Paola e Matilde di salire sulla vicina strada asfaltata ed attenderci lì, al fresco, dove potremmo recuperarle una volta raggiunta l’auto. C’è un tentennamento: la ragione prova a prevalere.
Delicatamente però, come fa nel romanzo della Austen la sorella maggiore Elinor sulla più giovane Marianne. Poi, affidandomi io stesso – non so bene a cosa (all’intuito forse) – avendone avuto mandato da Paola e Matilde, che a loro volta si affidano a me, decido di farle proseguire per la via più incerta. Incontriamo altre difficoltà, naturalmente. E siamo anche stanchi, accaldati, sotto un sole implacabile. Ma un’inattesa sorgente lenisce la sete. Il Neto è di una bellezza assoluta, mitica: scorre fresco, docile, allegro, con pozze occhieggianti, fra due ciglia di ontani. È il fiume alla cui foce le donne troiane rapite dai greci appiccarono il fuoco alle navi per non riprendere il mare. Siamo in un idillio di Teocrito. Pacifiche, le vacche pascolano con i vitelli nelle umide radure. I campanacci sono musica che s’accorda con il gorgoglio del fiume. Procediamo lentamente, stanchi ma felici, in questo mondo senza tempo. Sino a che, come un miraggio, compare il velluto d’oro dei pascoli dai quali siamo partiti al mattino. Pur nella fatica, pur nell’afa, pur nel sudore, le quiete mandrie scampananti, le praterie, i boschi della Sila, il torrente, ci paiono ora la più bella visione che esista al mondo, la meta a lungo cercata, il premio per esserci affidati al nostro cuore. E quanto all’eterno dissidio fra ragione e sentimento valga quel che dice Jane Austen nel suo romanzo: “Quando la ragione è restia ad essere convinta, riesce sempre a trovare qualcosa a sostegno dei propri dubbi”. Questa volta, però, per un giorno soltanto, per qualche ora appena, il sentimento ha dissipato i dubbi della ragione.
*Avvocato e scrittore
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