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Il racconto dall’Equatore

«Il Sud sta appeso per il collo al pendolo di un orologio sfasato che oscilla per gran parte del tempo da un solo lato: quello della tragedia. Di tanto in tanto spezza il blocco e passa nell’altro…

Pubblicato il: 28/09/2024 – 15:30
di Gioacchino Criaco
Il racconto dall’Equatore

«Il Sud sta appeso per il collo al pendolo di un orologio sfasato che oscilla per gran parte del tempo da un solo lato: quello della tragedia. Di tanto in tanto spezza il blocco e passa nell’altro campo: quello della farsa. Fra necrologio e cartolina, si legge male il Meridione, dentro il suo corpo immobile la Calabria sopravvive in bilico fra le Procure e il cinema, il giornalismo e la satira, il gotico e il pacchiano. Essendo soprattutto questi gli schemi di lettura, ovviamente si legge male, con un unico giudizio: la Calabria è persa. Ma la Calabria è pur sempre una vita, cessa con l’ultimo battito di cuore. C’è uno spasimo in petto che ancora dura, ritarda il certificato di morte. Non si può fare un torto a chi, da fuori, la veda una terra irredimibile. Salvo che l’osservatore sia tutt’altro che ingenuo e abbia gli strumenti per capire e finga di non vedere davvero, rinunci a capire. Non servono profeti per sapere che la Calabria sia da parecchi anni sull’orlo di un burrone. Il cervello serve per interrogarsi sul perché la lasciano in bilico, sulla mancanza dell’ultimo calcio. Basterebbe poco, cesserebbe l’ultimo battito. Al contrario, servirebbe un impegno eccezionale per allontanarla dal dirupo, portarla lontano dal pericolo e trarla in salvo. Nessuno vuole ammazzarla e nessuno vuole salvarla. C’è chi si nutre della sua agonia e chi trae giovamento dalla sua sopravvivenza. Massima calabrese infallibile recita: “nulla è come sembra, trova a chi giova e troverai il colpevole». Se la si adoperasse avremmo una narrazione diversa dal racconto fasullo che ci hanno propinato. Sull’abisso, prossimi all’irredimibilità, non ci siamo arrivati di colpo, e nemmeno a passo svelto, ci hanno condotto(ci siamo lasciati condurre) lentamente.Ora, è vero, è inutile rivedere gli errori, il passato è passato, ma la nostra condizione di prossimi agli inferi dipende tutta da ciò che ci hanno fatto e da ciò che ci siamo lasciati fare. Ognuno si prenda le colpe che ha, dopo ci andremo pure all’inferno -ma dobbiamo farlo chiedendo pure scusa ai carnefici? Ci hanno fatto, e ci siamo lasciati fare, che il popolo calabrese dopo millenni di stanzialità sia finito preda della irresistibile partenza: si è svuotato un mondo, che ovvio non era felice, non era perfetto, ma non esistono perfezioni e felicità neppure altrove. Da metà ottocento, a oggi, le nuove generazioni sono state mandate via. Una terra senza sangue giovane non la cambi. Non è questione se sia migliore chi parta o chi resti, il problema diventa la mancanza della parte vitale di un corpo, che non c’è stata per lottare, lavorare, costruire. Ai rimasti è stato insegnato l’arrangiarsi, il piegarsi e, senza inalberarsi, in tempi recenti o remoti, tutti abbiamo avuto qualcuno che si sia piegato. I rimasti si sono trovati schiacciati fra uno Stato lontano, e indifferente, e un potentato locale spregiudicato e spietato, dotato di un formidabile cane da guardia. Si è vissuto così, fra la costrizione a partire e la necessità di compromettersi per vivere: un padre o un nonno o un bisnonno si è piegato pure per gli integerrimi di oggi. La Calabria non ha mai vissuto la normalità in nessun settore: lavoro, sanità, giustizia, viabilità. Per decenni tutto è viaggiato in un certo modo. Pure nel resto del Paese non ha imperato la perfezione, anzi, il Sud ha subito di tutto, ma certo non ha imposto totalitarismi politici o economici. Certo è che oggi in molti, dentro e fuori, per tante utilità, tendano a far passare la Calabria come fenomeno da baraccone: buona per divertire, consolare, capace di sfornare criminali e comici per ogni esigenza, e ancora madre che gemma figli da condurre altrove. I calabresi hanno la colpa gravissima di non aver lottato da subito per la propria libertà. Dopo sono diventati cani alla catena che cialtroni di fuori e traditori di dentro hanno condotto dove fosse utile a loro. Adesso siamo prossimi all’estinzione, all’essere tutti andati già. Ma ancora ci danno lezioni sulle nostre colpe e ancora ci inviano Messia con la promessa di salvezza; e ancora ci lasciamo raccontare, irretire. Ancora non troviamo la forza di fare l’unica cosa che abbia davvero dignità: Lottare, provare a essere liberi da nemici esterni e traditori interni, che sono ancora gli stessi, che da noi portano ancora gli stessi nomi di famiglia. E dopo, pure che ci finiamo all’inferno, le fiamme avranno un altro sapore».Scrivo il pezzo sopra da più di dieci anni. Da quando, in pochi, si è cominciato a parlare della imprescindibilità di una lotta vera a cui tutti siamo chiamati perché la Calabria non tramonti definitivamente, il che per alcuni potrebbe non essere un dramma. Fra le varie forme di lotta, sul lavoro, la giustizia, la sanità, l’ambiente, la sconfitta del feudo, una forma essenziale, e di raccordo, c’è la narrazione. Se una terra non sia raccontata correttamente, capita, non può nemmeno essere salvata, quantomeno provare a farlo.Fra le Querce di Africo si è coniato il termine “nuova narrazione della Calabria”. Ci sono state irrisioni e derisioni, si è cercato di ostacolare in ogni modo un racconto sincero, “né necrologio né cartolina”.Oggi tornano tutti là.Bisogna raccontarla bene. Un paziente non può essere curato bene e un dottore non è un buon medico se si prescinda da una fedelissima storia di progressione patologica.

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