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«L’offerta dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali sarà sempre più inadeguata»

Così il presidente Cartabellotta in audizione presso la Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati

Pubblicato il: 10/01/2025 – 7:02
di Emiliano Morrone
«L’offerta dei servizi sanitari ospedalieri e territoriali sarà sempre più inadeguata»

«Nei numeri fa freddo», ripeteva Manlio Sgalambro, filosofo di Lentini al pari del sofista Gorgia e più noto quale paroliere del brano “La cura”, come autore dei testi di Franco Battiato. I numeri non permettono di barare e silenziano ogni tipo di retorica. Essi, infatti, danno un’immagine alquanto nitida della realtà, delle dimensioni di un problema, delle carenze e delle prospettive di un sistema; per esempio, economico, culturale o sanitario.
È proprio di numeri che oggi ragioniamo, con l’invito a non voltare lo sguardo. E parliamo di frammentazione del Servizio sanitario nazionale, che spesso non viene inquadrata da legislatori, eletti e altre espressioni della politica.
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, è stato molto chiaro nella sua recente audizione alla Camera in Commissione Affari sociali, che sta conducendo un’indagine conoscitiva per il riordino delle professioni sanitarie. L’esborso per il lavoro dei dipendenti della sanità pubblica – ha spiegato Cartabellotta – ha subito una caduta fra il 2012 e il 2023: dal 33,5 per cento della spesa sanitaria totale è passato al 30,6 per cento. Significa circa tre punti percentuali in meno.

La spesa e la “differenza” tra regioni

Nel merito, Cartabellotta ha evidenziato «il sacrificio economico imposto ai professionisti del Servizio sanitario nazionale», che poi è tra le cause principali del trasferimento di medici e infermieri dal pubblico al privato. Peraltro, fra il 2020 e il 2023, la spesa per il personale dipendente è diminuita di 15,5 miliardi, ha esplicitato il presidente di Gimbe. Il quale, sulla scorta dei dati della Ragioneria generale dello Stato, ha precisato che le regioni in Piano di rientro – come la Calabria – stanno al di sotto della media italiana relativa alle unità di personale sanitario impiegate in ambito pubblico.
Non solo, Cartabellotta ha riassunto che «l’ottimizzazione della spesa pubblica per il personale sanitario è stata gestita in maniera molto differente tra le Regioni». In pratica, «quelle più virtuose nell’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni registrano una spesa per unità di personale dipendente più bassa». Il che, secondo il presidente della Gimbe, è tra l’altro legato alla riduzione delle posizioni apicali e a un più elevato rapporto professioni sanitarie/medici, funzionale a «ridurre la spesa mantenendo una maggiore forza lavoro per garantire l’erogazione dell’assistenza sanitaria».
Dunque, le regioni con un Servizio sanitario più efficiente spendono meno, rispetto a quelle in deficit di assistenza sanitaria, per pagare i dipendenti delle strutture pubbliche. Così è, anche se non pare. Ancora, nella sua audizione, Cartabellotta ha posto l’accento sui «tetti di spesa» per il personale dipendente dei Servizi sanitari regionali. E ne ha rimarcato talune conseguenze: il ricorso ai “gettonisti”, cioè a medici, infermieri e altre figure sanitarie esterne, reclutate tramite terzi. È il lavoro in affitto. Con tutto ciò, aggiungiamo, che ne deriva in termini di impegno individuale e di qualità complessiva del servizio, comunque inferiore.

I medici in servizio

Nondimeno, a margine bisognerebbe segnalare anche la prassi delle prestazioni aggiuntive, che, per esempio in Calabria, spesso va ad assecondare pressioni politiche locali, piuttosto che a rispondere a necessità di sistema. Per inciso, quanto ha reso, in termini di salute, sostenere queste spese per coprire i turni della notte? Qual è, a fronte delle corrispondenti uscite, il rapporto con i volumi di ricoveri e prestazioni? Chi ha controllato? Esiste un bilancio specifico? Nell’anno 2022 i medici in servizio nelle strutture sanitarie erano 124.296, di cui 101.827 dipendenti pubblici. In particolare, la media nazionale è di 2,11 medici per 1.000 abitanti, che porta l’Italia al di sopra di quella Ocse, il che vale anche per i laureati in Medicina nello stesso anno. Però, ha avvertito Cartabellotta, nel Belpaese vi è una significativa carenza di camici bianchi in alcune specialità fondamentali: Medicina d’emergenza-urgenza, Medicina nucleare medicina e cure Palliative, Patologia clinica e Biochimica clinica, Microbiologia, Radioterapia. In queste branche, ha ricordato il presidente della Gimbe, «la percentuale di assegnazione delle borse di studio per l’ultimo anno accademico è stata inferiore al 30 per cento». A compendio, lo sappiamo bene in Calabria, anestesisti e radiologi vanno cercati con il lanternino.

Gli infermieri

Per quanto, invece, concerne gli infermieri, in Italia ne abbiamo meno della media Ocse, secondo i dati del 2022: 6,5 per 1.000 abitanti contro 9,8 per 1.000 abitanti. La situazione è critica anche in ordine ai laureati in Scienze infermieristiche nello stesso anno di riferimento: 16,4 per 100mila abitanti, quando la media Ocse è di 44,9 per 100mila abitanti. Per l’immediato futuro, ha anticipato Cartabellotta, non si prevedono miglioramenti al riguardo. E, secondo l’Agenas, servono 20-25mila infermieri di famiglia e comunità per la riorganizzazione dell’assistenza territoriale contemplata dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Allora c’è un problema di sacrifici economici imposti ai medici, di carenza di personale specialistico e infermieristico e, nelle regioni meno virtuose, di mancata ottimizzazione delle risorse umane disponibili. Anche perché stanare i cosiddetti “imboscati” è sempre impopolare. Ed è insieme un compito delicato quanto oneroso, perfino sul piano della legge e del diritto.

L’allarme di “The Lancet”

Poi c’è il problema della frammentazione dei dati sanitari e, più in generale, del Servizio sanitario nazionale, regionalizzato, dunque già differenziato. Questo è un tema chiave affrontato in un recente articolo apparso sulla rivista “The Lancet”, la bibbia della ricerca scientifica nel campo della medicina, assieme al “The New England Journal of Medicine”. L’articolo esordisce con una previsione: entro il 2050, l’Italia passerà dai 59 milioni di abitanti del 2022 a 54,4 milioni, con un calo di popolazione dell’otto per cento a causa del progressivo invecchiamento e del calo delle nascite. È il cosiddetto “inverno demografico”. Oltre un terzo della popolazione avrà un’età superiore ai 65 anni, mentre i bambini sotto i 14 anni rappresenteranno poco più dell’11 per cento. Allora cresceranno le difficoltà per i Servizi sanitari e l’assistenza sociale.

Manca un sistema unificato e centralizzato

A causa dell’autonomia delle Regioni in materia sanitaria, oggi non esiste, in Italia, un sistema unificato e centralizzato per documentare e condividere le cartelle cliniche elettroniche, i dati ospedalieri e le cartelle cliniche dei medici di base. Seppure alquanto pubblicizzato, il Fascicolo sanitario elettronico risente in maniera significativa della scarsa interoperabilità tra regioni e ospedali. Inoltre, ancora non vi sono sistemi di caricamento automatico dei dati nelle cliniche private. L’articolo in questione riflette su questi aspetti e sull’assenza «di una politica nazionale che assegni le risorse in modo equo a tutte le regioni o che stabilisca protocolli standardizzati per la raccolta e il trasferimento dei dati».
La raccolta e il trasferimento dei dati sanitari sono stati e rimangono elementi di evidente debolezza del Servizio sanitario calabrese. Aggiornamento, completezza e attendibilità di questi “numeri” restano una delle sfide principali del management sanitario e dovrebbero essere motivo di maggiore preoccupazione per il sistema politico.
«I pazienti delle regioni meridionali, che in genere dispongono di risorse più limitate, si recano negli ospedali settentrionali più attrezzati – si legge nel succitato articolo – per essere curati. Tuttavia, a causa della mancanza di sistemi interoperabili, gli ospedali del Nord spesso non possono accedere alle cartelle cliniche dei pazienti, con conseguenti esami diagnostici ripetuti e ritardi nelle cure. Questa duplicazione fa lievitare i costi: la sola mobilità sanitaria interregionale incide per circa 3,3 miliardi di euro all’anno e compromette i risultati dei pazienti». E più avanti: «La legge sull’autonomia differenziata, se approvata, decentralizzerà ulteriormente la governance dell’assistenza sanitaria, approfondendo la frammentazione e le disparità tra le regioni invece di promuovere la raccolta e la condivisione armonizzata dei dati. L’armonizzazione legislativa a livello nazionale è essenziale per creare una rete di dati sanitari unificata in Italia».

«Dare priorità alle riforme di sistema»

Peraltro, in Italia, rimarca l’articolo in parola, l’accesso ai dati per scopi di ricerca è molto ristretto per ragioni di privacy, nonostante che l’Unione europea ne promuova la facilitazione e la condivisione responsabile. Se – si avverte nell’articolo apparso su “The Lancet” – non si agisce per la raccolta e l’utilizzo effettivo dei dati sanitari, così come per risolvere la frammentazione della sanità italiana, «si aggravano le disuguaglianze, si ritardano le cure e si ostacolano i progressi». «Dare priorità alle riforme di sistema – conclude l’articolo – offre all’Italia l’opportunità di soddisfare la domanda di assistenza sanitaria e di fornire cure eque ed efficienti». A volere, le questioni di cui ci siamo oggi occupati potrebbero essere oggetto di analisi, discussione e confronto all’interno dell’assemblea legislativa della Calabria e della rappresentanza politica più in generale. Ce lo auguriamo. (redazione@corrierecal.it)

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