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IL RACCONTO

Alba

Le “Langhe” sono un importante territorio che si trova principalmente nella Provincia di Cuneo, in Piemonte. Tuttavia alcune aree di esso si estendono anche nelle Province di Asti e Alessandria. Il l…

Pubblicato il: 21/02/2025 – 7:05
di Antonello Commisso
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Alba

Le “Langhe” sono un importante territorio che si trova principalmente nella Provincia di Cuneo, in Piemonte. Tuttavia alcune aree di esso si estendono anche nelle Province di Asti e Alessandria. Il loro nome ha origini arcaiche e il suo significato è legato alle caratteristiche morfologiche del territorio, infatti esso deriva probabilmente dal piemontese “langa”, che significa “collina”.
La loro fama deriva oltre che dalle alture coltivate a vite che si estendono a perdita d’occhio, anche dai numerosi borghi storici arroccati su di esse, dai castelli imponenti e dalle testimonianze dell’antica civiltà contadina.
Inoltre, le Langhe sono anche terre dai numerosi primati enogastronomici. Tra i prodotti tipici di quest’area spiccano infatti, oltre la paste fresche, come i “tajarin” o i “raviolo del plin”, molti formaggi DOP, quali il Castelmagno, la Raschera, la Robiola di Roccaverano, il Murazzano e il Bra. Inoltre in esse si produce la nocciola Tonda Gentile, e vi si trova il rinomatissimo tartufo bianco di Alba.
Esse sono terra anche di numerosi vini DOCG (Denominazione d’Origine Controllata e Garantita e)  fra cui il Barolo, il Barbaresco e il Dolcetto di Dogliani, nonché di vini DOC, quali il  Nebbiolo, il Barbera e il Dolcetto d’Alba e l’Harveys. Sul territorio sono altresì presenti anche vitigni autoctoni, quali il Pelaverga, la Freisa, la Favorita e la Nascetta.

Pertanto, a causa della loro unicità, dal 2014, le Langhe, insieme al Roero, territorio anch’esso in provincia di Cuneo e al Monferrato, sono state riconosciute dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità. E proprio in questo territorio ricchissimo di bellezze paesaggistiche e tradizioni enogastronomiche che il 18 settembre 1951, un gruppo di “trifolau”, ossia cercatori di tartufi, composto da cinque persone, si ritrovò ad Alba a discutere nell’osteria detta “di Casa Scaparone” che si trovava nel Borgo omonimo.
Essi erano: Mangasio Saponetta, di 53 anni, di professione maestro elementare, soprannominato per la sua attività “l’insgnant”; Giuseppino Papera di 54 anni, impiegato comunale detto “pinin”, per la sua modesta statura che non superava il metro e sessanta; Arturo Gallerini, anch’egli di 54 anni, cancelliere al Tribunale di Cuneo chiamato “bego”, cioè “bello”, oppure “daré”, a causa della sua proverbiale fortuna nella vita; Armando Fettuccina di 50 anni, di mestiere ebanista, noto come il “citin”, essendo il più giovane del gruppo e infine Xavier Scorrè, di 62 anni, poliziotto in pensione soprannominato “pulas” o “sbir”, per il suo lavoro precedente.

Tra piatti di “tajarin” e un bicchiere di Nebiolo e l’altro, i cinque si misero a discutere sull’annuale Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, la cui prima rassegna risaliva al 1929, per poi prendere un’altra china concernente i loro rispettivi successi nella scoperta di tartufi. Ma, più o meno come i pescatori che si vantano delle dimensioni del pesce abboccato all’amo, ognuno di loro sosteneva di averne trovati di dimensioni eccezionali. C’era chi diceva di averne trovato uno di 280 grammi, chi controbatteva di averne dissotterrato uno di 350, di cui per testimonianza aveva a casa la fotografia, chi affermava di averne scoperto uno di 370 e via dicendo.
Infine trovarono un accordo: stabilire per tutti loro un giorno destinato esclusivamente alla ricerca di tartufi bianchi, e venne fissata come data della sfida venerdì 26 ottobre 1951, in cui tutti, ad eccezione del pensionato Scorrè, avrebbero preso ferie. E poiché ogni vera scommessa ha una posta in palio, questa consisteva in una cena senza limiti di spesa da tenersi a Cuneo, presso il prestigioso “Ristorante il Grill del Lovera” operante dal 1939, naturalmente tutta a base di tartufo bianco d’Alba. La ricerca di questo preziosissimo fungo ipogeo (cioè che cresce sottoterra) è un’arte antica, che si tramanda di generazione in generazione. Essa richiede innanzitutto un ottimo cane, allevato fin da piccolo a fiutare i tartufi e una perfetta conoscenza del territori che indicano la presenza di questi funghi ipogei. I “trifolau” esperti vanno in cerca di zone ricche di querce, lecci, pioppi e tigli, nonché di un territorio calcareo e ricco di humus, ulteriori “segnali” sono la presenza di mosche “Suillia gigantea”,  o le zone di terreno bruciate dette “pianelli”. Lo scavo è infine effettuato con una particolare zappetta, detta “vanghetto”.

Poiché tutti e cinque i contendenti erano a conoscenza di questi segreti del mestiere, in quanto ottimi “trifolau”, il problema che si pose maliziosamente ad ognuno di loro, fu quello di come neutralizzare o mettere in difficoltà, in un modo o nell’altro, gli altri contendenti. Il  primo a mettersi all’opera fu Giuseppino Papera, il ”pinin”, il quale il 23 ottobre si recò dal suo medico e si fece prescrivere un forte diuretico. Dotatosi di un secchio nell’arco della giornata successiva lo riempì di circa un litro e mezzo di “pissa”, ossia urina. Trasferitola in una capiente bottiglia, il 25 dello stesso mese si recò all’una di notte sotto casa dello “sbir” Scorré e la versò per intero nel serbatoio della sua “Fiat Topolino”, certo che il giorno successivo la piccola utilitaria sarebbe stata inutilizzabile, e l’ex “pulas” non avrebbe potuto spostarsi e partecipare alla gara.
Ma Scorré era “sbir” nell’animo e, aspettandosi qualche tiro mancino da parte degli altri quattro, si era appostato dalle nove di sera dietro la finestra e poté così vedere la manovra di “pinin”.  Per ritorsione, aspettò che si facessero le quattro del mattino e recatosi nel palazzo in cui Papera abitava al secondo piano, in mezz’ora sigillò con cemento, mattoni e cazzuola, nel modo più silenzioso possibile il portone d’ingresso, rendendo impossibile l’uscita sia di Giuseppino che degli altri inquilini.
Purtroppo la trovata dell’ex “pulas” si rivelò inutile, in quanto “pinin”, avendo trovato murato il suo portone d’ingresso, come i carcerati che evadono, si calò coraggiosamente a terra dal suo appartamento, con tutte le lenzuola arrotolate e annodate, facenti parte del corredo della figlia ancora sedicenne e si indirizzò verso la tartufaia prescelta. D’altra parte anche Scorré si era cautelato e, essendosi fatto prestare il giorno prima dal fratello Onorio lo scooter “Galletto” della “Moto Guzzi”, si recò con quello, legando sul sedile posteriore il suo adorato cane “Poker”, verso la zona del bosco delle Langhe che aveva individuato.
Anche Mangasio Saponetta, “l’insgnant”, adottò una sua trovata per mettere fuori gioco Armando Fettuccina, il “citin”. Essa consisteva banalmente nell’entrare la notte del 26 ottobre nel suo garage e tagliare le ruote alla sua “Lambretta Innocenti”. Ma quando vi penetrò non trovò il piccolo mezzo di trasporto, ma solo un previdente biglietto appeso ad un gancio con la scritta “Meè mes a lé sigur, cojon!”, ossia “il mio mezzo è al sicuro, coglione!”.
Così “l’insgnant” dovette rassegnarsi con rammarico, che divenne presto disperazione, quando all’uscita dal garage scopri che delle ruote erano state effettivamente tagliate, ma erano tutte e quattro quelle della sua “Fiat 1100”. Comunque sia , tanto il “citin” quanto Saponetta riuscirono a raggiungere le loro rispettive “lòca ’d trifole”, insieme ai loro cani,  il primo con la proprio “Lambretta” ed il secondo grazie ad un passaggio su un camion “Fiat 626”, mezzo di lavoro di un venditore ambulante di accessori per cucina.
Anche l’ulteriore tentativo del solito Giuseppino Papera, il “pinin”, di mettere fuori gioco Arturo Gallerini, il “bego” o “darè”, facendo mangiare, la sera di giovedì 25, al cane “Parigi” quattro succulente polpette di carne e ricche di aglio, al fine di fargli perdere temporaneamente l’odorato fallì, in quanto Arturo era andato a dormire dalla figlia, portando naturalmente con sé il suo “Taboj” o “cane da trifola”. Il giorno successivo si trovarono tutti di primissima mattina nello stesso bosco, ricco di querce, lecci, pioppi e tigli, con terreni calcarei e ricchi d’humus, distante una ventina di chilometri da Alba. Ognuno aveva ovviamente con sé il proprio “cane da trifola”, indispensabile per le ricerche. Tre di essi erano dei meticci addestratissimi, ossia il già citato “Parigi” del “darè” Gallerini, “Attila”, di proprietà del “citin” Fettuccina e “Bartali”, dell’ “l’insgnant” Saponetta. A questi si aggiungevano altri due cani selezionati e venduti per il loro fiuto da tartufo, ossia “Poker”, un Lagotto romagnolo dello “sbir” Scorrè e infine “Churchill”, un Pointer inglese del “pinin” Giuseppino Papera.
Alle sei e mezza precise partì la ricerca, effettuata da ognuno nel proprio territorio preferito, distanti più o meno un paio di chilometri l’uno dall’altro. Alle 9 e 15 minuti  fu il “citin” Armando Fettuccina ad urlare “trovata!!”, riferendosi ad una trifola di un centinaio di grammi, annusata da “Attila” e portata alla luce con l’immancabile “vanghetto”. Anche se  non poterono sentirlo a causa della distanza, gli altri non furono da meno nelle scoperte. Infatti “Churchill” del “pinin” Papera, intorno alle 10 e mezza, scovò un tartufo da un paio d’etti, mentre sia lo”sbir” Scorrè che “l’insgnant” Saponetta, grazie ai rispettivi cani portarono alla luce, più o meno contemporaneamente, intorno alle 11 e 20, il primo un fungo ipogeo di circa due etti e mezzo e il secondo uno da addirittura quasi 300 grammi. All’una e trenta precise, i quattro si ritrovarono nel luogo fissato anticipatamente per confrontare le rispettive trifole che, al momento, davano la vittoria ad Arturo Saponetta. Ma al luogo dell’appuntamento mancava il “bego” Arturo Gallerini. La cosa risultò agli altri alquanto strana, perché Gallerini era solitamente puntuale ma, non potendo fare altro, cominciarono ad attenderlo. Così si fecero le due, poi le due e mezza e infine le tre.
A quel punto la preoccupazione palesatesi già un’ora prima, si tramutò in ansia per le sorti dell’amico. Così l’intero gruppo si sparse a raggiera nel bosco alla ricerca di Arturo. Dopo un’altra ora di oramai affannosa ricerca , finalmente “l’insgnant” Saponetta lo trovò a terra privo di sensi ai margini di una buca alla base di un tiglio, con accanto il cane “Parigi” che uggiolava e poco distante l’immancabile “vanghetto”. Avvicinatosi con apprensione all’amico, Mangasio Saponetta guardò meglio ed i suoi occhi si posarono sulla buca scavata dal “bego” Gallerini. Immediatamente e in modo inatteso, anche “l’insgnant” ebbe un mancamento.
Ciò che vide gli fece prima avere un giramento di testa, seguito immediatamente dopo da un annebbiamento del visus e da una piccola fitta al cuore, che lo fece cadere in ginocchio vicino all’amico e rimanere immobile come una statua per l’incredulità. Fu proprio in questa posizione che gli altri li ritrovarono una ventina di minuti dopo e, restando, distanti, si fecero convinti da quanto sostenuto da Scorré, ovvero che erano stati colpiti da un ignoto gas nocivo proveniente da sottoterra.
A quel punto si pose il problema di chi sarebbe andato a verificare se questa opinione fosse vera. Lo “sbir” che l’aveva formulata sostenne che lui non si poteva avvicinare perché aveva letto che i miasmi tossici rendono impotenti. Anche il “pinin” Giuseppino Papera rifiutò di avvicinarsi ai due, con la tesi che a lui anche le scoregge gli facevano venire violenti attacchi di asma bronchiale. A quel punto restava solo il “citin” Armando Fettuccina, che non essendo di risposta pronta, non seppe come ribattere e fu di conseguenza inviato dagli altri a verificare di persona quanto avvenuto ai due “trifolau”. Il “citin”, immancabilmente seguito dal fedele cane “Attila”, si avvicinò con circospezione e arrivato sul luogo del mistero, dopo aver guardato dentro la buca, immediatamente sbiancò, mettendosi a tremare in modo quasi convulsivo e diventando incapace di proferire qualsiasi parola. La situazione appariva drammatica, ma all’improvviso, ricordando il suo passato da “pulas” di razza, lo “sbir” ebbe un’intuizione fulminante.
“Non è possibile che ci siano miasmi tossici! -Esclamò- Altrimenti anche i cani ne avrebbero risentito! Allora deve esserci qualche altra cosa che li ha turbati così fortemente, e non deve essere dannosa per la salute, ma anzi tutto il contrario! Presto, andiamo a vedere”. Concluse con una smorfia sardonica di chi aveva centrato la natura del misterioso incidente. E così, abbandonate le cautele, i due si avvicinarono rapidamente al luogo del fattaccio.
Ciò che videro, oramai preparati a tutto, lasciò anche loro senza fiato. Nella buca scavata dal “bego” c’era un tartufo bianco dalle proporzioni mai viste prima. E dopo aver fatto riprendere i sensi con tre generose sorsate di grappa di Barolo ed un paio di affettuosi ceffoni ad Artuto Gallerini, e due ulteriori sorsi della raffinata acquavite a testa anche all’ “insgnant” e al “citin” , si chiesero tutti se quella “supertrifola” che avevano sotto gli occhi fosse autentica, e non invece un beffardo scherzo della natura. Dopo averla presa in mano con tutte le precauzioni del caso ed averla esaminata da ogni lato con precisione chirurgica, tutti e quattro finirono col concordare  che quello trovato da Arturo era davvero il tartufo bianco più grande mai rinvenuto, sia ad Alba che in qualsiasi altro luogo della Terra. E possedendo il “pinin” anche un bilancino di precisione, lo pesarono con tutta l’accuratezza del caso. Il responso dello strumento fu 2,250 kg.! Ovvero, roba da “Guinness dei Primati”, che giustificava in pieno il secondo soprannome di Arturo Gallerini, ossia (che) “darè”, che culo!
Arturo e la sua megascoperta furono portati da tutto il gruppo in trionfo ad Alba con la  “Lancia Ardea” dello stesso Gallerini, il quale ancora intontito si senti in obbligo, insieme agli amici, di recarsi in Municipio e fare partecipe il Sindaco Cleto Giovannoni dell’eccezionale scoperta. Naturalmente anche lui fu turbato dalle dimensioni eccezionali della trifola bianca e suggerì, dopo un lungo colloquio telefonico con il più famoso commerciante di tartufi Giacomo Morra, innanzitutto di stimarla e quindi di trovare il modo di valorizzarla al meglio come simbolo del Città.
L’esperto Morra, stupito anch’egli per le dimensioni e la qualità del tartufo bianco, sostenne che una simile trifola non aveva prezzo, in quanto esemplare da record mai viso, ma si offrì di acquistarla lui stesso per 70.000 lire (cifra manifestamente più che sottostimata), per farne dono, dopo accordi col Sindaco ed i Capigruppo in Consiglio Comunale, al 33º Presidente degli Stati Uniti Harry S. Truman, come simbolo del Comune di Alba per il suo contributo alla fine del Secondo Conflitto Mondiale e, soprattutto, per i cospicui aiuti che l’Italia intera aveva ricevuto grazie al cosiddetto “Piano Marshall”.
Così sembrò essersi conclusa la vicenda dell’enorme trifola bianca d’Alba. Ma il vessillo del primato durò per gli albigesi purtroppo solo quattro anni, in quanto il 14 dicembre del 1954 a San Miniato, in provincia di Pisa, in Toscana, ne fu trovato un altro bianco ancora più grande, cioè del peso di 2,520 kg. Ma questa è tutta un’altra storia di gran “darè”, nella ricerca di funghi ipogei.

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