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Da Turi a CamilWay, così il rap calabrese da underground è diventato mainstream

Il successo del 24enne crotonese al talent di Netflix ha radici antiche: quarant’anni fa le prime posse ed esperimenti in rima. Anche in dialetto

Pubblicato il: 13/04/2025 – 17:48
di Eugenio Furia
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Da Turi a CamilWay, così il rap calabrese da underground è diventato mainstream

COSENZA Chissà cosa ne avrebbe pensato oggi Stefano Cuzzocrea di CamilWay: nel giorno in cui gli amici ricordano i dieci anni senza “Cuzzo”, folletto della penna e del rap oltre che fine conoscitore e divulgatore della controcultura musicale, davvero manca un suo giudizio sul rapper crotonese che domani potrebbe portarsi a casa i 100mila euro del talent Netflix “Nuova scena”.
Camillo Perini, 24 anni, nato e cresciuto nella città di Pitagora, quartiere San Francesco, è l’ultimo epigono di una “vecchia scena” nata quarant’anni fa sulla scia di quanto accadeva oltreoceano: i teenager delle periferie dell’impero scimmiottavano RUN DMC e Public Enemy, e prima che i social e il web sostituissero i canali di informazione analogica si viveva un’epopea iniziata coi videoclip di Mtv e la mitologica trasmissione “YO! Rap” e proseguita in radio con “One Two One Two” (Deejay) ma anche pubblicazioni a tema come un introvabile opuscolo di Stampa Alternativa a inizio ’90 e la ben più strutturata “Storia ragionata dell’hip hop” di Damir Ivic (Arcana, 2010).

Una ricognizione minima

La Calabria, in questo sollecitata anche dalla presenza di alcuni centri sociali come il Gramna di Cosenza dove agiva anche la radio comunitaria Ciroma, ha vissuto appieno la stagione delle posse, i collettivi politicizzati di fine anni ottanta nati sulla scia della Pantera a Roma: tra Crati e Busento erano addirittura due le band, Truscia Posse (tra i membri Luigi Vite, Dino Grazioso e Manolo Muoio, performer e attore oggi affermatissimo della scuderia Antonio Rezza) e South Posse, con Lugi (Luigi Pecora) poi guru riconosciuto su scala nazionale della nuova scuola locale – composta da Dj Marcio (Marcello Marsico, scomparso prematuramente nel luglio 2010), Kiave (Mirko Filice), Rafè (Raffaele Giannuzzi), Emme (Manuel Garro), Fabio Gaudio e tanti altri – che porta a Dj Kerò, Brigante, Nersone (Francesco Guglielmelli), Dongo e Libberà e alla Paola Tribe (Dest, Ottaviano, Sapone e soci) del celebrato dj e producer Macro Marco.
A cavallo dei secoli e dei millenni questa nuova scuola animava le “jam” con ospiti artisti da tutta Italia e lasciava traccia – è il caso di dire – nelle compilation su musicassetta, i cosiddetti “mixtape” (ma che ne sanno i ventenni…), cose da boomer. Erano gli anni in cui anche il Reggino dettava legge, grazie soprattutto al genio di Turi (all’anagrafe Salvatore Scattarreggia), dissacrante mc calabro-russo di Oppido Mamertina celebre per i pezzi in un gramelot in cui il vernacolo si mescola allo slang americano, ma anche agli eclettici Astatici Clique/Stranimali Social Club di Palmi e dintorni, collettivo che onorava le 4 discipline della cultura hip hop, compreso il writing ossia i graffiti: Emanuele Pugliese (None), Carmelo “Zamo” Managò e il talentuosissimo liricista L-Mare (Marco Lombardo). Non si smetterà mai di riconoscere alla città dello Stretto l’apporto dato alla cultura hip hop, basti pensate al rapper Ciccio “FFiume” Fiume, dal vocabolario con pochi eguali come il politicizzato Kento, ai Poeti Onirici cui toccò anche la fama di un titolo in copertina nella rivista AL (accanto a Cypress Hill e Roots!), o alla rapper Loop Luna e ancora a dj Mbatò da Rizziconi, senza bisogno di risalire ai fratelli Cellamaro, meglio noti come Tormento (ex Sottotono) ed Esa (ex Otr), originari appunto di Reggio Calabria ma “expat” tra Varese e Milano.

In questa ricognizione parziale non può mancare il Vibonese, con le fly Viky e Pisa, e il Lametino con Tony Polo e Giagià al microfono, altri multiformi aedi del dialetto: prima di loro Copa e JVas, le crew Nua gang e NS, writer di grande attitudine e talento, i dj Namek, Fastm e Testa e il più giovane Zarra. A Catanzaro hanno lasciato un segno la nutritissima SDC Posse (Mastro Fabbro era un pilastro anche fuori città come producer e ha “allevato” generazioni di mc) e – qualche anno dopo – il Branco.
Si parla peraltro degli anni in cui Ampollino Rap canalizza le energie del movimento hip hop non solo calabrese sulle sponde del lago silano, nell’età di passaggio tra gli albori e la golden age che nel primo decennio del Duemila vedrà fiorire la nuova generazione tra rap conscious (consapevole) e trap.
E Crotone? La città di CamilWay ha espresso nomi del calibro di Don Diegoh, epico in alcune recenti produzioni con il monumentale IceOne, romano che magari avrà radici calabre… Forse basta scavare…   
Il dialetto calabrese, tranne i pochi casi citati, raramente ha avuto ospitalità nei testi che al contrario scimmiottavano le parlate bolognesi dei Sangue Misto (SXM è del 1994) o milanesi della scena post-Club Dogo. Negli ultimi dieci anni nomi come Luché (ex Cossang), Clementino e Rocco Hunt hanno riportato ed elevato la napoletanità e dunque il dialetto a linguaggio rap universale e il successo di Geolier – con Fabri Fibra e Rose Villain nella giuria di “Nuova scena” – certifica la potenza dei linguaggi vernacolari anche nel mainstream. Ed eccoci ri-arrivati a CamilWay.

Domani il responso su Netflix

«Non ho capito niente di quello che hai detto ma non sono riuscita a levarti gli occhi di dosso» ha confessato Rose Villain dopo la prima esibizione di Camil. «È il meno vendibile ma il più unico tra i 4 finalisti» ha aggiunto Geolier nell’ultima puntata di “Nuova scena”, confessando che il crotonese è il suo preferito. Fabri Fibra ne apprezza la genuinità, dall’abbraccio alla mamma in chiusura del video di “Benvenuti in Calabria” alla gallina della festa nuziale da lui esposta con lo stesso orgoglio dei trapper coi loro collanoni. CamilWay si definisce miracolato dopo l’incidente stradale – nell’ultimo episodio mostra l’albero dov’è andato a schiantarsi, lo stesso che ha visto morire l’amico Ferruccio che lo ha «protetto come un angelo» –, ha puntato sulla provenienza, ha mutuato il soprannome Terminator (dovuto alle placche in titanio dopo l’operazione causata da quell’incidente stradale) in “Terronator”, nel videoclip a Mesoraca lo vediamo nel pranzo di matrimonio tra gli animali della fattoria e un giro in Panda (vecchio modello) con gli amici, il ritornello racconta lo spopolamento: «Ei compà» con fischio annesso, e promette «Io non vado via», in chiusura piazza una rima sullo stato assente per raccontare la criminalità. Quarant’anni fa le posse raccontavano lo stesso scenario con linguaggi diversi. Dal 1985 molto è cambiato, o forse no. (e.furia@corrierecal.it)

Nella foto Camilway davanti a un murale di Rino Gaetano nel videoclip “Lu Suli”

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