«Non era un bell’uomo», ma risultava bello
Diverse descrizioni e molte fotografie, quasi in maniera concordi, colgono quel suo essere e apparire bello a dispetto della sua bassa statura

I ricordi di Lico, le memorie di amici e familiari, le lettere alla «madrina di guerra» Ottavia Puccini e quelle famose a Laura, al padre, al figlio, le sue stesse opere – opportunamente ripensati – servono a fare capire meglio un eccezionale modo di essere insieme segreto e autobiografico, misterioso e candido, discreto e profondamente sincero. Riferimenti autobiografici di Alvaro e memorie di altri su di lui congiurano e concorrono a farci riconoscere lo scrittore, nella sua arte e nella sua poesia, ma anche nella sua umanità, nella sua fisicità, nella sua corporeità, nel suo senso etico, delle cose e della vita (amava e conosceva profondamente Campanella e gli altri grandi calabresi).
Diverse descrizioni e molte fotografie, quasi in maniera concordi, colgono quel suo essere e apparire bello a dispetto della sua bassa statura, del suo viso schiacciato, che a volte lo rendevano, come dice Cristina Campo, «un bruttissimo ometto» che, tuttavia, quando rideva e chiudeva gli occhi diventava bello come «un intaglio cinese». Domenico Lico, nella “Biografia su Alvaro”, così ricorda come gli apparve Alvaro nell’autunno del 1911, studente sedicenne nella quinta ginnasiale al “Galluppi” di Catanzaro: «Faccia maschia dal mento rotondo, naso un po’ schiacciato, labbra carnose, occhi castano-cerulei opachi rivelanti un qualche grado di miopia, barba e baffi rasi, fronte spaziosa, molti capelli, lunghi, biondo-sbiaditi volti all’indietro, colorito smorto, collo corto, statura bassa, corpo regolare, abito trasandato».
Viene da accostare il ritratto che Lico fa di Alvaro l’autoritratto che il giovane liceale lascia in racconto inedito Verbo di modo finito – Racconto a Maria, dove narra l’innamoramento di uno studente per la giovane Maria F. «Guido Albarosa non era un bell’uomo nemmeno a guardarlo con le più serie attenzioni. Una testa grossa sempre ciondoloni sul petto come un frutto troppo grande per una rama troppo tenera (si diceva anche che quella testa bassa fosse sempre tra le nuvole), un viso insignificante con un più insignificante pallore e molti capelli che al sole erano biondi come quelli di un poeta ideale o di un conferenziere primizio; biondi insomma e quando si dice biondi Guido Albarosa è più simpatico».
Resta memorabile una bellissima pagina che Pietro Pancrazi ha lasciato dello scrittore alla fine di una conferenza a Firenze (che poi diventerà “Calabria”, 1931).
«Qualche settimana fa ho inteso Corrado Alvaro parlare in pubblico in una illustre sala fiorentina, che è sempre per uno scrittore non toscano una bella prova[…] Parlava della sua Calabria, e calabrese restò. Con quella sua faccia che sembra un pugno chiuso visto di profilo, si pose di fronte alla sala e per un’ora disse il fatto suo… cosa su cosa e quasi con un senso di necessità. Ci aveva messo le mani dentro e sembrava intridere una farina, impastare un pane. Sparpagliava lontano le sue impressioni, i ricordi, i proverbi, le figure della sua terra, li lasciava andare; e poi a un tratto, con un accenno […]della mano tozza, li raccoglieva, li ribadiva a sé. Riapriva, poi, la mano di taglio, a mezz’aria, e gli ridava la via. Diceva e tornava a dire […] Il pubblico intese. Nell’oratore che voleva ma non riusciva a staccarsi dal tema, avvertì qualcosa d’insolito, una verità, una poesia[…]. Scoppiarono, alla fine, a due tre riprese, quegli applausi fitti, secchi, che si fanno a gola stretta. L’oratore in piedi si illuminò un momento appena, e quasi di stupore; poi si richiuse, e venne via con le braccia lente e il passo lungo del calabrese che ha ancora molto da camminare».
Domenico Zappone («Il piccolissimo», maggio-giugno 1956), incontra Alvaro a Roma, già ammalato: «trascinava la sua segreta amarezza in compagnia di R. M. De Angelis, il quale premurosamente si chinava verso di lui, gli porgeva il braccio perché si appoggiasse ma invano». Zappone incontrava per caso lo scrittore. «Indossava un impermeabile chiaro, da sembrare scolorito dal sole. La grossa testa s’attaccava al busto senza distacco. Il viso largo ma pallido. Era un uomo malato e triste, profondamente scontento…».
Di lì a poco, Cristina Campo lo avrebbe visto ammalato e silente, espressivo e concentrato, bello come un intaglio cinese, e assopito «con un sorriso un po’ ironico, sapiente». Quale «bellezza» rivelava un uomo che tutti descrivono (come confermano anche le caricature e le fotografie) con una testa grossa, attaccata al collo, un viso schiacciato e a tratti insignificanti? Ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere e osservare il viso, il profilo, lo sguardo, gli occhi mobili di don Massimo Alvaro e del figlio Massimo, di qualche nipote e pronipote figlio o nipote di sorelle, di qualche lontano partente rimasto a S. Luca o in altre parti della Calabria. Osservando il fratello e il figlio (che somigliavano abbastanza ad Alvaro) ho immaginato che la bellezza di Alvaro consistesse in quello sguardo intenso e profondo, sicuro e mobile, diretto e fiero. Nel suo colorito bruno; in un fare vispo e inquieto e insieme pacato; nel suo camminare lento e con un passo lungo che lo rendevano figura emblematica di un mondo che oscillava tra tradizione e mondo moderno. Alvaro incantava con le sue parole e la sua arte oratoria. Da bambino, quando il padre lo voleva «poeta» aveva recitato nei matrimoni di paese e aveva studiato e osservato la teatralità dei suoi paesani e a Catanzaro, durante i moti per la guerra, era lui a ad arringare i rivoltosi (cfr. “Mastrangelina”, “Vent’anni”, la “Biografia su Alvaro” di Lico). Anche agonizzante Alvaro conservava quello sguardo concentrato e intenso, che poteva diventare fiero fino all’indignazione e ironico ed eloquente, che rendeva timido, imbarazzato, affascinato chi gli stava di fronte. Dopo la morte, Laura «potuto vederlo nella sua bellezza, giovane come ai tempi del loro matrimonio». La donna, che lui aveva amato corrisposto, e con la quale il rapporto non era stato certo facile e continuo, poteva baciarlo sulle labbra e dirgli, sorridente, arrivederci caro perché Alvaro, anche nel corpo, era tornato o era rimasto un adolescente. (redazione@corrierecal.it)
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