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il doppio movimento

L’utopia negativa e la distopia classica, Alvaro e Orwell a confronto

I due grandi autori della letteratura contemporanea sembrano guardare l’uno nell’opera dell’altro in un reciproco intreccio di scambio e rispecchiamento

Pubblicato il: 01/06/2025 – 11:01
di Roberta Borrelli
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L’utopia negativa e la distopia classica, Alvaro e Orwell a confronto

Un doppio movimento coinvolge due grandi autori della letteratura contemporanea europea, si tratta di Corrado Alvaro e George Orwell, che sembrano guardare l’uno nell’opera dell’altro in un reciproco intreccio di scambio e rispecchiamento. Per la stesura di 1984 Orwell potrebbe aver attinto alla distopia scritta da Alvaro nel 1938 – mi riferisco a L’uomo è forte – e lo stesso avrebbe fatto Alvaro tempo dopo con Belmoro, uno dei suoi ultimi grandi romanzi, rimasto però incompiuto e ben più vicino ai tratti dell’utopia negativa che della vera e propria distopia. L’opera è in effetti di difficile incasellamento, non può rientrare pienamente nei parametri della distopia classica, essendo caratterizzata da una commistione di generi, soluzioni narrative diversificate (per esempio la presenza dell’elemento satirico e quello utopico-morale) (Falco, 1987) e da una trama complessa e inafferrabile. Il giovane Belmoro, inoltre, non è un eroe delle distopie classiche alla maniera di Winston Smith anzi, con una sottile ma significativa differenza lo si potrebbe identificare come eroe dell’utopia negativa, figlio di un autore che dell’utopia e della realtà ha fatto punti cardine nella sua riflessione letteraria. Difatti sembra essere la tensione utopica di Alvaro e la strenua ricerca di sintesi tra le due parti a indirizzarlo sulla linea fantascientifica, o meglio fantapolitica, rappresentata da Belmoro. E anzi, forse proprio con questo romanzo egli aveva creduto di poter trovare finalmente una sintesi tra la sua personale tensione utopica e la distopia offerta dalla modernità al fine di riflettere, studiare e poi risolvere le numerose contraddizioni di un mondo in furiosa avanzata tecnologica, che procedeva a divorare la dimensione umana non ancora meccanizzata e impegnata a raccogliere le macerie del secondo dopoguerra.
Gli eroi delle distopie classiche sono malandati (occhi intasati, dita con ascessi, denti cariati), ma le loro menomazioni e zoppie li rendono coscienti della loro individualità, invece Alvaro tratteggia un personaggio dotato di sovrumana bellezza, senza difetti o tratti problematici, puro e incontaminato. Dunque se Winston Smith rappresenta l’“ascesso del sistema” (Colombo, 1987), Belmoro ne è l’opposto: è un adolescente bellissimo, un “caduto dal cielo” (luogo imprecisato che potrebbe rappresentare l’eden che era il grembo materno, luogo della gioia, dell’infanzia) e che approda violentemente sulla terra – del mondo e della vita non sa nulla, addirittura la parola gli verrà istillata da una donna, Gaetana (Alvaro, 1957). Belmoro è, inoltre, un innocente alle prese con l’inferno della modernità, costretto da eventi esterni a portare avanti il suo pericoloso viaggio di formazione e di stratificazione delle conoscenze attraverso tutta Opera Mundi, condannato a cambiare la sua forma umana e infine a perderla per diventare un’ombra, un negativo fotografico (Amigoni, 2019). Il viaggio che il ragazzo compie lungo una traiettoria orizzontale parte dal contado, lo porta fino alla città ipertecnologica e racconta il tentativo di recuperare la solidità del suo corpo e più specificamente della sua identità, in una catabasi nell’inferno della modernità.
Decisamente in comune con le distopie classiche è, invece, la privazione dell’amore, quello autentico. A Opera Mundi, infatti, perfino la maternità è brutalizzata, l’eugenetica mira alla creazione di una razza superiore e le donne che nella produzione alvariana sono sempre unico luogo di approdo salvifico, in Belmoro assumono forme terrorizzanti, mostruose e violente. Qui inoltre viene espulso l’eros, dunque viene annullata la distanza con l’Altro rendendo impossibile il riconoscimento di un individuo diverso da sé, e fa sì questo sia solo oggetto di sollazzo, privato di un Sé e venga ridotto a essere un mero prodotto del mercato, tutto da consumare (Han, 2019).
Come già detto, Belmoro non è caratterizzato da ascessi o carie visibili, zoppia o altro, ma a lui spetta un destino beffardo e quasi opposto e speculare a quello di Smith: la liquefazione. L’ultima metamorfosi del giovane, dovuta all’assunzione di droghe metamorfiche (il ragazzo prima prende le forme di un bambino e poi quelle di un’ombra, condizione che il lettore non vedrà più mutare), rappresenta la più drammatica delle perdite, prima del corpo, poi della parola e infine della letteratura. Ed è un processo necessario ad Avaro che annuncia così l’avversione all’ascesa perversa dell’estetica della macchina, che appiattisce la realtà, la rende sterile, priva di colori o complessità, mutandola in orrore (Fontanelli, 2000). Si dissolve così il mistero del corpo, che ha sempre incantato Alvaro, ma le trasformazioni di Belmoro soprattutto rappresentano l’attestazione della drammatica crisi in atto, la quale si concretizza in una scrittura che non è terrorizzante, ma che ammorbidisce l’incubo della modernità con l’ausilio dell’elemento comico e satirico (Fontanelli, 2000). La dissoluzione del giovane, però, non può dirsi solo un punto di debolezza, ma attribuisce forza a un narratore in prima persona che si pone come principale osservatore della realtà, con occhio obiettivo perché ancora puro e innocente, inconsapevole e protetto da occasionali aiuti esterni che più spesso arrivano da donne.
Il legame tra Alvaro e Orwell, però, sembra precedente a Belmoro, e potrebbe essere già iniziato con la pubblicazione de L’uomo è forte (1938) che precede 1984 (1949) di undici anni. Ammettere che Orwell possa essere entrato in contatto con l’opera di Alvaro permette di isolare delle somiglianze, tra queste: la presenza dello Stato all’interno delle case e l’idea dello Stato oppressivo, con cittadini sempre e continuamente sotto l’occhio del regime, ingranaggi di un organismo perfettamente funzionante; il sistema capillare di spie, delatori e agenti sotto copertura; la presenza di un personaggio politico idolatrato dalle folle con un fare mistico ed emotivo, che ricorda il sistema di controllo operato dal Grande Fratello. Corigliano ha sottolineato come per L’uomo è forte non si possa parlare davvero di un Grande fratello ante litteram, ma evidenzia come per esempio la fessura nel muro nella camera dalla quale Dale e Barbara si sentono spiati, e nella quale probabilmente non c’è nessuno, faccia pensare a specifici episodi di 1984. Diversamente, ne L’uomo è forte manca l’utilizzo della tecnologia come strumento di controllo, che invece in Orwell è persistente, marcato, con riferimenti manifestamente politici e contestativi nei confronti della censura. A somigliarsi è anche il modello di una teocrazia in cui la divinità è costituita dalla collettività che manipola gli individui e allo stesso tempo si manifesta attraverso loro, dove il regime mira a costruire un senso religioso che permea il vivere sociale, affinché lo Stato sia per la collettività alla stregua di un Dio, assoluto e trascendente, affinché sia accettato senza discussioni. (Corigliano, 2021).
Come Orwell potrebbe aver fatto della distopia di Alvaro una delle sue fonti, è certo che Belmoro sia ricco delle citazioni del romanzo di Orwell. Nell’incompiuto di Alvaro vi è infatti una massiccia presenza di organi e istituzioni molto simili ai ministeri di 1984: l’unione di Igiene e Bellezza, l’Organizzazione mondiale dei Malvagi, il Comitato per la Persecuzione dei poveri e dei sofferenti, l’Unione Biologica Universale e, tra tutti, spicca il ministero della Pubblica Distruzione. Questo è il luogo perfetto per il dispiegamento del potere totale di Opera Mundi, poiché permette di attivare iniziative volte alla distruzione dell’uomo, ma la principale è la reificazione degli uomini in opere d’arte: con l’aiuto dell’eugenetica il regime ha intenzione di riprodurre bellezza all’infinito, così mentre gli uomini reificano in oggetti, le opere di creazione umana verranno completamente distrutte: «Dicono che a furia di esercitarsi a riprodurre le cose belle per secoli e secoli, la bellezza vi si riproduca tra esseri viventi, senza artificio» (Alvaro, 1957). Proprio in questa doppia traiettoria di distruzione dell’arte e la corrispondente trasformazione dell’uomo si compie una delle più sottili violenze perpetuate da Opera Mundi. Tra le iniziative del ministero vi è una evidente furia iconoclasta nei confronti del passato, che ricorda gli eccessi dell’avanguardia futurista (basti pensare a Marinetti che nei suoi manifesti invocava la distruzione dei Musei), allo stesso modo in Belmoro viene predicata la necessità per il paese di «rinnovarsi, distruggere la sua vecchia radice per entrare nella grande universalità dell’Opera Mundi» (Alvaro, 1957). È evidente la somiglianza con 1984, dove la riscrittura della Storia è cancellazione del passato e ogni tentativo di conservarla ha in sé qualcosa di profondamente sovversivo e di pericoloso per lo Stato totalitario.
A tal proposito in Belmoro vi è un interessante edificio che si erge imponente nella città di Magnitudo: è l’Ufficio Tradizione e Testi dove i «clamorosi capolavori» musicali e poetici dei secoli passati vengono ripetuti in loop con il solo scopo di renderli «disgregati e ridotti al ridicolo, fino a quanto sarà lo stesso trasmettere una serie incoerente di suoni e di rumori» (Alvaro, 1957). Utile è la spiegazione di uno dei grigi funzionari preposti a tale lavoro: «Ripetuta all’infinito, in ogni circostanza e in ogni ora, non c’è opera d’arte che resista. Ed è questo il nostro scopo. Io ho veduto disgregarsi le più famose e considerate sinfonie, i più grandi poemi. Non c’è nulla che resista ai mezzi moderni. E bisogna insistere» (Alvaro, 1957). Questo stesso personaggio menziona, inoltre, un vecchio funzionario ormai in pensione nel momento in cui Belmoro va a visitare la struttura. Si tratta di un esempio di intellettuale che ha perso di forza, di mordente e non ha più voce, manipolato e completamente immerso nel sistema, privato del potere e della sua vivacità intellettuale, dunque ridotto a niente: «un professore […] chiese poi di essere sostituito perché diceva di avere acquistato una sufficiente disistima per tutte le maggiori opere dell’umanità passata, e che avrebbe voluto dedicare gli anni che gli restavano alla dimostrazione della puerilità delle arti antiche, fino alla vigilia del nostro tempo» (Alvaro, 230).
Nel mondo soffocante di 1984 la Storia viene continuamente riscritta, anzi, cancellata attraverso la messa in opera di un complesso e raffinatissimo arsenale di dissuasione/persuasione, di menzogna, di distruzione delle capacità stesse di pensiero e della lingua parlata (newspeak o neolingua). Il newspeak, semplice e sintetico, è emblematico strumento di dispotismo, capace di cancellare e rimuovere fatti ed eventi sgraditi, ma anche angolazioni e prospettive diverse (Moneti, 1987): «stiamo riducendo il linguaggio all’osso. […] Alla fine del processo tutti i significati connessi a parole come bontà e cattiveria saranno coperti da appena sei o sette parole o, se ci pensi bene, da una parola sola. Non è una cosa meravigliosa?» (Orwell, 1982). Qui si innesta il secondo strumento di potere, il bipensiero, che mira al far coabitare gli opposti al fine di cessare di concepire la contraddizione, dunque l’opposizione politica. Un simile procedimento di depotenziamento del linguaggio è rintracciabile in Belmoro, dove una parola non segue lo stesso processo di riduzione, ma è ben più duro e mira alla sostituzione delle parole, dunque non significa anche il suo contrario, ma è esattamente il suo opposto: «Vi era stato un tempo, intorno al 1950, in cui tutto era questione di parole […]. V’erano state parole, in quel tempo, che adoperate nella loro forma tradizionale significavano però un’altra cosa, come Democrazia, Libertà, Popolo. […]. Per esempio la Pace, […] si pronunziava volendo significare Guerra […] Così la parola Morire, era sostituita dalla parola Spegnersi o Scomparire. Come la parola Amore […] era sostituita dalla parola Sesso e Possesso» (Alvaro, 1957).
Alla luce di quanto detto è possibile individuare in Opera Mundi una sorta di controllo panottico, tipico delle distopie classiche, poiché emerge la presenza di un controllo centralizzato e assoluto del potere. Ma l’opera incompiuta di Alvaro sembra fatta per essere infinita, per rendersi continuamente interpretabile a seconda del tempo che si vive, e la sua complessità emerge anche nell’impossibilità di mettere a punto la mappatura di questo universo distopico. Il regime di Opera Mundi è nato dall’unione delle nazioni rimaste dopo la catastrofe atomica della terza guerra mondiale e accoglie sei nazioni. Queste, però, non vengono nominate con precisione e il lettore può scorgere appena qualche angolo delle campagne, luoghi periferici e avere notizie di città che compongono il regime (Dololon, il Reame di Lipona, Lenburg, Ripagis). Tra le principali due spiccano: Magnitudo (rappresentazione di una Roma decadente, dove ancora resiste lo zoccolo duro di una umanità mortificata) ed Energheiton la città ipertecnologica, ricca di laboratori dove vengono portati avanti terrificanti esperimenti, e che sembra richiamare una New York allucinata e distopica. In questa città vengono sperimentate mostruose tecnologie: le ibridazioni tra uomini e animali (omòteri), l’uso di tecnologie farmacologiche che cambiano aspetto e umore (si tratta proprio delle pillole metamorfiche di cui fa uso Belmoro), il traffico non regolato di organi artificiali, donne bellissime assemblate come fossero pezzi industriali, o meglio pezzi di anatomia.
Alvaro ha dimostrato, ancora una volta, con la sua utopia negativa di avere lo sguardo sensibile e aperto di un autore che è stato capace di percepire e guardare ben oltre i tempi che stava vivendo senza però poterli descrivere pienamente non avendo gli strumenti che chi sarebbe venuto dopo di lui avrebbe avuto e padroneggiato. La capacità di dire e descrivere ma l’impossibilità di comprendere pienamente lascia alla nostra contemporaneità un’opera incompiuta che altrimenti sarebbe stata enciclopedica. Belmoro è un’opera fantascientifica che non ha uguali nella storia del primo Novecento italiano: la padronanza dei generi letterari, la sconfinata cultura classica del suo autore, i riferimenti al postumano e al transumano (si pensi all’uso della tecnologia crionica in funzione della life extension). Infine quella discreta ma definita attenzione che egli riserva al corpo, agli usi che se ne fanno, alla sua sublimazione, alla disumanizzazione della macchina, lo studio della società di massa che incombe e finisce per implodere in sé stessa. Alvaro è un autore che racconta l’incubo della modernità, eppure con fiducia, profondità e sensibilità, descrive le degenerazioni dell’inferno tecnologico lasciando intravedere uno spiraglio di speranza, irriducibile, e la possibilità di fuga verso una felicità protetta e tendente all’utopia, per lui sempre e ancora possibile nella realtà.

Bibliografia

C. Alvaro, Belmoro, Bompiani, Milano1957.
C. Alvaro, Belmoro, Bompiani, Milano1957.
F. Amigoni, L’ombra della scrittura. Racconti fotografici e visionari, Quodlibet, Macerata 2019.
F. Corigliano, Resistere a sé stessi. L’uomo è forte di Corrado Alvaro, in «Letteratura e Scienze», Atti delle sessioni parallele del XXIII Congresso dell’ADI, Pisa, 12-14 settembre 2019.
P. Falco (a cura di), Utopia e realtà nell’opera di Corrado Alvaro, Edizioni di Periferia, Cosenza, 1987.
G. Fontanelli, L’ultimo Alvaro, Sicania, Messina 2000.
B.-C. Han, Eros in agonia, Nottetempo, Milano 2019
M. Moneti, Sul rapporto utopia-distopia, in A. Colombo (a cura di), Utopia e distopia, Franco Angeli, Milano 1987.
G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1982.

Roberta Borrelli

Attualmente iscritta al II anno alla scuola di dottorato di Lettere lingue e arti, presso l’Università degli studi di Bari, si occupa di intelligenza artificiale, postumano e transumano nella letteratura italiana dal primo novecento a oggi. Autori cardine dei miei studi sono: Corrado Alvaro, Italo Calvino, Primo Levi, Dino Buzzati, Paolo Volponi. Ha pubblicato due saggi in riviste ANVUR: “Le città invisibili di Calvino e il gemello digitale”, apparso su «incroci» (2023), e “La solitudine di Gerolamo Aspri: un movimento di ribellione che distrugge e rigenera”, pubblicato su «Mosaico italiano» (2024). In occasione del Convegno 2024 a Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha tenuto un intervento nelle sessioni parallele titolo “Alvaro transumano: tecnologie riproduttive e cervello elettronico in “Belmoro”.

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