Lavoro e cittadinanza, oggi e domani si vota per 5 referendum
Urne aperte oggi fino alle ore 23 e domani dalle 7 alle 15. Tutto quello che c’è da sapere su quorum, voto sì o voto no

ROMA Oggi e domani i cittadini italiani sono chiamati a esprimersi sui referendum abrogativi relativi a 5 quesiti in tema di lavoro e cittadinanza. Possibile votare oggi dalle ore 7 alle ore 23 e domani dalle ore 7 alle ore 15. I referendum, indetti con decreti del Presidente della Repubblica 25 marzo 2025 (Gazzetta ufficiale, Serie Generale, n.75 del 31 marzo 2025), sono: «Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione»; «Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità: Abrogazione parziale»; «Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi»; «Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: Abrogazione»; «Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana». Da tenere a mente: 1) si tratta di referendum abrogativi, chiedono cioè di cancellare una norma: questo avviene con il sì; con il no resta la legge così com’è. 2 ) Per queste consultazioni è previsto un quorum: se non partecipa al voto almeno la metà più uno degli aventi diritto, il referendum non è valido e non importa se abbia vinto il sì o il no. Nel dettaglio i quesiti.
I QUESITI
Quesito 1: Reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo
Il primo referendum – scheda verde – riguarda il Jobs act, riforma sul lavoro del governo Renzi, e chiede che sia cancellato il «contratto a tutele crescenti». Di che si tratta? Nelle imprese con più di 15 dipendenti, prima del 2015, in caso di licenziamenti illegittimi, cioè senza giusta causa, era previsto il reintegro sul posto di lavoro: l’azienda poteva essere obbligata a riprendere il lavoratore allontanato ingiustamente, se a dirlo era un giudice, in base al famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nella versione però, è bene sottolineare, già «depotenziata», mitigata dalla riforma Fornero. Il Jobs act ha mandato in soffitta l’obbligo di reintegro in diversi casi di licenziamento senza giusta causa. E lo ha sostituito – questo vale solo per gli assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 – con un indennizzo economico, che varia da 6 a 36 mensilità in base agli anni di servizio: due mensilità per ogni anno trascorso in azienda, per questo si parla di «tutele crescenti». In alcuni casi, come i licenziamenti discriminatori o alcuni tipi di licenziamenti disciplinari ingiustificati, il reintegro è ancora previsto. Anche perché sono intervenute, intanto, alcune sentenze della Corte costituzionale a difesa del diritto a riavere il posto di lavoro. Per sintetizzare: se vince il sì e il referendum raggiunge il quorum si cancella il contratto a tutele crescenti e si torna all’articolo 18, con il reintegro sul posto di lavoro, come modificato però, attenzione, dalla riforma Fornero, che aveva già introdotto, in alcuni casi, un’indennità economica al posto della tutela «piena» (in altri casi no: nei licenziamenti collettivi con criteri di scelta scorretti, ad esempio, la legge Fornero predispone il reintegro e la normativa attuale l’indennizzo). Se vince il No o se il referendum non raggiunge il quorum resta in vigore il contratto a tutele crescenti, così com’è oggi. Le ragioni del sì: dare agli assunti dopo il 7 marzo 2015, oltre 3,5 milioni di lavoratori, le stesse tutele dei più «anziani»: per la Cgil, con il Jobs act sono «penalizzati da una legge che impedisce il reintegro anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del rapporto». Le ragioni del no: il Jobs act ha reso più flessibile il mercato del lavoro, troppo rigido per le imprese con l’articolo 18, dando le giuste tutele.
Quesito 2: Maggiore tutela nei licenziamenti delle piccole imprese
Il secondo quesito – scheda arancione – riguarda i lavoratori delle piccole imprese, quelle fino a 15 dipendenti, e chiede di cancellare il tetto massimo per le indennità in caso di licenziamento: oggi infatti è previsto che un lavoratore licenziato ingiustamente, cioè dopo che un giudice ha ritenuto l’allontanamento illegittimo, può ottenere al massimo 6 mensilità di risarcimento. Se vince il Sì, con quorum, il tetto viene cancellato e sarà il giudice a determinare il risarcimento senza alcun limite. Se vince il no o manca il quorum il tetto resta. Le ragioni del sì: circa 3 milioni e 700 mila dipendenti delle piccole imprese, secondo i calcoli dei promotori, avrebbero più tutele, cancellando il limite massimo sarà il giudice a determinare il giusto risarcimento. Le ragioni del no: l’assenza di limiti scoraggerebbe nuove assunzioni, aumentando il rischio per gli imprenditori.
Quesito 3: limiti ai contratti a termine e ritorno all’obbligo di causale
Il terzo quesito – scheda grigia – è sui contratti a termine. I contratti a termine oggi possono essere instaurati fino a 12 mesi senza causali, ovvero senza l’obbligo, da parte dell’azienda, di indicare alcuna ragione specifica che giustifichi il lavoro temporaneo. L’obbligo di indicare una causale, come la sostituzione di una collega in maternità o lo sviluppo di un nuovo prodotto (i casi, per le diverse categorie, sono previsti nei contratti collettivi), era stato eliminato nel 2015 con il Jobs act. Se vince il sì, con quorum: anche per i contratti entro i 12 mesi servirà la causale. Se vince il no o manca il quorum: resta tutto com’è. Le ragioni del sì: i promotori puntano a limitare il ricorso ai contratti a termine per ridurre quella che chiamano «la piaga del precariato». Le ragioni del no: l’assenza di causali toglierebbe alle aziende la possibilità di adattarsi a improvvise esigenze di mercato e aumenterebbe il contenzioso.
Quesito 4: responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro
L’ultimo quesito in materia di lavoro – scheda rossa – riguarda la sicurezza, in alcuni casi particolari, quelli di appalto o subappalto. Chiede di cancellare le norme che impediscono in caso di infortunio per rischio specifico negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa committente. Se vince il sì: l’impresa committente sarà responsabile in solido con l’appaltatore o il subappaltatore per tutti i danni subiti dal lavoratore nei quali questo non risulti indennizzato dall’Inail. Se vince il no o manca il quorum: resta tutto com’è. Le ragioni del sì: la responsabilità solidale renderebbe l’impresa che affida un lavoro più attenta alle esigenze della sicurezza. Evitando, magari, scelte al massimo ribasso. Le ragioni del no: la responsabilità che si chiede di estendere all’impresa committente riguarda i rischi specifici, aspetto che esula dalle sue competenze tecniche.
Quesito 5: Cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza legale
Il quinto quesito referendario interviene sulla legge n. 91 del 1992 in materia di cittadinanza, con l’intento di semplificare e accelerare l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri non comunitari. Attualmente, uno straniero può ottenere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo almeno 10 anni di residenza legale continuativa in Italia. Inoltre, è prevista una norma specifica per i minori adottati da cittadini italiani, che ottengono la cittadinanza solo se adottati formalmente. Il quesito propone due modifiche: da un lato, abrogare la norma che prevede il requisito dei 10 anni di residenza, riducendo di fatto a 5 anni il termine minimo richiesto; dall’altro, eliminare il riferimento all’adozione, in modo da estendere automaticamente il diritto alla cittadinanza anche ai figli minorenni dei nuovi cittadini, indipendentemente dalla modalità con cui sono entrati nel nucleo familiare. Il testo del quesito è il seguente: “Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza?” Se approvato, il referendum ridurrebbe da 10 a 5 anni il periodo di residenza necessario per fare richiesta di cittadinanza, favorendo l’integrazione degli stranieri che vivono stabilmente in Italia e garantendo automaticamente il diritto anche ai figli minorenni. . (redazione@corrierecal.it)
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