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la ricostruzione

Quando Brusca negò di conoscere i calabresi. «Mai trasmesse imbasciate di Riina alla ‘ndrangheta»

Il “boia di Capaci” nel 2014, davanti ai pm della Dna, rigettò tutte le accuse mosse da numerosi pentiti secondo cui avrebbe preso parte almeno ad un incontro organizzato in Calabria

Pubblicato il: 11/06/2025 – 11:00
di Giorgio Curcio
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Quando Brusca negò di conoscere i calabresi. «Mai trasmesse imbasciate di Riina alla ‘ndrangheta»

LAMEZIA TERME «Escludo di avere trasmesso ai calabresi una “imbasciata” di Riina con la quale, dopo la strage di via D’Amelio, si chiedeva alla ‘ndrangheta di partecipare all’attacco contro lo Stato che Cosa Nostra aveva scatenato. Non ho mai avuto rapporti con i calabresi».
È il 28 gennaio 2014 quando davanti al sostituto procuratore nazionale antimafia, Francesco Curcio, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca nega categoricamente le accuse mosse da una serie di pentiti. Nella sede della Direzione nazionale antimafia, a Roma, ci sono anche Giuseppe Lombardo della Dda di Reggio Calabria e Giovannella Scaminaci della Dda di Catania.
«Posso anche dire che sempre per ragioni processuali, ho saputo che Gaspare Spatuzza ha riferito che in carcere era stato avvicinato da alcuni giovani calabresi che imputavano a Cosa Nostra e alla sua strategia stragista l’inasprimento del carcere duro. Spatuzza avrebbe riferito la cosa a Giuseppe o Filippo Graviano che gli avrebbero detto di rispondere ai giovani calabresi che sulla questione delle stragi potevano chiedere spiegazioni ai lo “padri”», ha raccontato ancora il capomandamento di San Giuseppe Jato ai pm, l’uomo che premette il pulsante a Capaci il 23 maggio 1992, facendo saltare in aria un’autostrada, uccidendo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, tornato libero dopo aver scontato, in tutto, 25 anni di carcere, di cui gli ultimi 4 in libertà vigilata.

La strategia stragista di Cosa nostra

La ricostruzione storica di quanto è avvenuto ormai oltre trent’anni fa è stata peraltro cristallizzata nelle aule di tribunale. La strategia stragista di Cosa nostra prendeva avvio tra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 ad Enna, nel cui territorio si erano svolte alcune riunioni, in cui si era deciso di sferrare l’attacco violento allo Stato. Una vera “guerra” da consumarsi attraverso bombe, attentati terroristici, guerre batteriologiche e avrebbe dovuto portare alla “destabilizzazione dello Stato”. Ampiamente provato poi che a tale strategia stragista, “esportata” nel continente, abbia aderito anche la «’ndrangheta nelle sue più elevate espressioni» perché «non poteva rifiutare il suo sostegno in ragione degli accertati e risalenti collegamenti e cointeressenze criminali tra cosche mafiose siciliane e la componente di vertice della ‘ndrangheta calabrese rappresentata dalle famiglie De Stefano-Piromalli». Una ricostruzione smentita, almeno in parte, da alcuni collaboratori che hanno escluso il coinvolgimento dei clan calabresi al progetto sostenuto da Cosa Nostra sebbene Maurizio Avola, intraneo alla mafia catanese e poi collaboratore di giustizia, aveva raccontato che «in caso di problemi da risolvere i referenti in Calabria erano i De Stefano e i Piromalli», precisando comunque come i Santapaola a cui era affiliato, «si erano dissociati dal progetto criminale stragista palermitano».



Gli incontri tra il 1991 e il 1992

Tornando a Giovanni Brusca, il collaboratore davanti ai pm risponde ad una serie di accuse mosse da alcuni pentiti. Risulta infatti dimostrato che nel 1991 e nel 1992 si svolsero numerose riunioni preparatorie, nel corso delle quali si discusse, tra i capi della ‘ndrangheta, della proposta stragista dei siciliani impersonati da Totò Riina e dai suoi seguaci, riunioni svoltesi nella zona controllata dai Mancuso, nonché nella Piana di Gioia Tauro, fino a giungere all’ultima svoltasi in casa Filippone, di cui ha riferito Calabrò, dalla quale partì l’ordine di uccidere un numero imprecisato di Carabinieri, dandosi così attuazione al piano stragista voluto da Cosa Nostra, al quale aveva aderito la ‘ndrangheta.
Occhi puntati, in particolare, su un incontro che sarebbe avvenuto proprio in Calabria. Tra i presenti ci sarebbe stato Giovanni Brusca, inviato dal capo di Cosa nostra, Totò Riina, per cercare sostegno dopo le stragi in cui morirono Falcone e poi Borsellino. Incontri in cui si era programmata una “strategia stragista” e si era parlato di attentati alle caserme dei Carabinieri. Lo ha riferito il pentito Morano, già ‘ndranghetista della cosca Albanese-Molè, e lo ha confermato il collaboratore Foschini, parlando di un’avvenuta riunione di cui trattasi, riferendo di averlo appreso da Antonio Papalia che, a sua volta, lo aveva saputo da Coco Trovato.

Le dichiarazioni di Franco Pino

Uno spunto importante era arrivato, in questo senso, da un altro collaboratore di giustizia ovvero Franco Pino, attivo nel cosentino nella ‘ndrina Sena-Pino. Quest’ultimo aveva precisato di «non aver mai avuto rapporti con i siciliani», ricordandosi invece di «una riunione che ebbe luogo nell’agosto del 1992 al villaggio Sayonara di Nicotera a cui presero parte Luigi Mancuso, Nino Pesce, Giuseppe De Stefano, Santo Carelli per discutere una proposta avanzata da Brusca per conto di Totò Riina» e avente ad oggetto la possibilità di estendere la stagione stragista anche in Calabria.

La difesa di Brusca, la linea dell’accusa

Giovanni Brusca però ha smentito di essere stato il portavoce della proposta stragista in Calabria per conto di Riina, come ribadito peraltro dalla difesa nel corso del processo. Secondo la Dda, però, nella logica difensiva sarebbero state escluse le dichiarazioni “positive” di altri pentiti quindi, seppure taluno non sappia dell’alleanza fra corleonesi e calabresi, «ciò non comporta una smentita dell’ipotesi accusatoria», a fronte di numerosi altri soggetti ed episodi che, al contrario, «attestano la sinergia dei due sodalizi sui delitti». (g.curcio@corrierecal.it)

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