Mafia e scioglimento dei Comuni, oltre 300 dal ’91. «La politica continua a scegliere i “pacchetti di voti”»
Romani (Avviso Pubblico): «Servono modifiche ma è una legge fondamentale». E poi i numeri: «Boom al Nord dal 2010, i politici ora scelgono i mafiosi»

LAMEZIA TERME «La mafia non è un anti-Stato ma uno “Stato nello Stato” che cerca sempre di mediare, basti pensare a Cosa nostra e ai corleonesi. Negli ultimi tempi la situazione è cambiata: se per molto tempo, infatti, sono stati i mafiosi a cercare di politici, offrendo voti in cambio di fare affari e gestire quote di potere, le inchieste di questi ultimi anni mostrano candidati politici che vanno alla ricerca di voti, sapendo benissimo da chi vanno, e questo accade da Nord a Sud». Un argomento di stretta attualità, affrontato durante uno degli eventi di Trame, il festival dei libri sulle mafie, conclusosi ieri sera a Lamezia Terme. Tra gli ospiti, anche Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico.
Tradizione e modernità
La mafia è, dunque, una sorta di unione tra la tradizione e la modernità, secondo Migneco. «Alcune cose restano come il controllo del territorio e il consenso sociale che poi diventa elettorale, ma anche sul versante politico e imprenditoriale, il mafioso viene cercato perché è in grado di offrire soluzioni ai problemi». «Offrono soldi, servizi, e offrono voti». Lo abbiamo visto anche con il calcio, la migliore parafrasi di una mafia che cerca consenso.

Il dibattito sullo scioglimento dei Comuni
Tema molto dibattuto, poi, quello sullo scioglimento dei Comuni per presunte infiltrazioni mafiose. Secondo il coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, «fermare una giunta comunale eletta dal popolo non è una cosa di poco conto, avrebbe a che fare con la prevenzione, ma il popolo e gli elettori la vedono come un sistema di punizione e che va a degradare l’immagine del territorio». «Ma è comunque una legge molto importante e significativa – ha precisato – ha bisogno sicuramente di qualche ritocco, ma si propone comunque di intervenire prima che si scoprano determinate situazioni che risulterebbero più gravi». «Questa legge approvata dopo l’episodio di Taurianova, è entrata in vigore con un decreto legge che dà la misura dell’urgenza, poi trasformata in legge e integrata con delle varianti», spiega.
E poi arrivano i numeri. «Dal ’91 ad oggi sono stati quasi 300 i Comuni sciolti per mafia, di cui 80 sono stati sciolti più di una volta. Siamo a Lamezia, sciolte tre volte, ma se andiamo in Campania, Marano di Napoli è stata sciolta quattro volte e per la quinta volta è stata nominata una commissione d’accesso». «Sono numeri che pongono un problema non solo dal punto di vista penale ma soprattutto politico e culturale. La politica chi candida? Persone che hanno competenze e capacità oppure soggetti che hanno pacchetti di voti che consentono a quelle coalizioni di vincere le elezioni? In molti casi succede proprio questo». E Romani sottolinea come, nella gran parte di questi ultimi casi, poi si scopre che i Comuni hanno bilanci disastrati e molto spesso non hanno neanche proceduto alla riscossione dei tributi. «Questa legge colpisce l’apparato politico che manda a casa tutto, e quello amministrativo? Questo è il grande problema. Hai dirigenti negli uffici che fanno appalti sottosoglia periodicamente per cui la ditta che vince gli appalti è sempre quella. Ecco, queste persone difficilmente vengono intaccate dal lavoro della commissione d’accesso e dagli scioglimenti».
Il boom al Nord dal 2010
«La legge è partita nel 1991, ha avuto un boom immediato e per tanti anni si è sciolto nel Mezzogiorno d’Italia, in Sicilia, in Calabria e in Puglia. C’è un comune nel Piemonte, Bardonecchia, sciolto per l’infiltrazione della ‘ndrangheta in una ditta dell’edilizia. Poi molto si ferma, fino al 2010, poi si comincia a guardare agli scioglimenti nel centro-Nord, in Lombardia, in Piemonte e con l’indagine “Mafia-Capitale” si pensava addirittura di sciogliere il Comune di Roma, e allora si è pensato ad un’alternativa denominata “vigilanza collaborativa” che arrivava dal rapporto tra Anac e la società che gestiva l’Expo a Milano. L’idea, insomma, di “non colpire nel mucchio”, cercando invece di risanare dei pezzi senza buttare tutto all’aria». (g.curcio@corrierecal.it)