Una nuova alba sulla Calabria
C’è chi stira all’alba per 600 euro al mese, chi cresce più figli senza sostegno, chi ha denunciato ed è sempre perseguitata

Oggi la sala dei Lampadari di Palazzo San Giorgio accoglie a Reggio Calabria il debutto di “Un’alba nuova”, romanzo che Gabriella Lax ha scritto con Andrea Puglisi. Alba, la protagonista, è una donna travolta dalla violenza muta del suo tempo. Internata in un manicomio durante la Prima guerra mondiale, privata della maternità e della parola, si aggrappa alle lettere come unico appiglio. Scrive per esistere, per non impazzire, per non spegnersi. Si rivolge a un uomo, a un soldato, forse addirittura a sé stessa. Nelle sue righe vive la storia di molte e ne esce l’immagine di una Calabria sotterranea, di vite costrette, negate, taciute. Emerge, insomma, una ribellione ostinata e silenziosa che vuole ascolto. Alba non è sola. Dietro il suo nome si accalcano altre donne, reali, che hanno sudato, combattuto, perso e vinto senza mai salire su un palco, senza aver ottenuto un premio, una menzione, qualche colonna di giornale.
Il romanzo stimola la memoria. Quante donne andrebbero ricordate?
Angelina Mauro, cadde a 23 anni sotto il piombo dello Stato, il 29 ottobre 1949. Successe nelle campagne di Fragalà, a Melissa, in provincia di Crotone. La giovane protestava per un pezzo di terra e spirò su un carro di legno: con il grembo squarciato, la camicetta impregnata di sangue, i capelli incollati alle tempie. Quel giorno, la polizia sparò per fermare un sogno contadino. Lei non imprecò né urlò. Morì in silenzio, invece, davanti agli occhi delle altre donne, che tornarono a casa col fazzoletto nero già annodato. Tre anni prima, a Calabricata, nel Catanzarese, un proiettile colpì Giuditta Levato. Era incinta di sette mesi e non sapeva scrivere discorsi. Riusciva, però, a tenere testa alla miseria. La sua morte lasciò orfani e campi abbandonati. Non ci fu risarcimento, manco una targa.
Caterina Tufarelli Palumbo fu la prima sindaca d’Italia. Esattamente a San Sosti, a poco più di 30 chilometri da Cosenza. Lì, nel 1946, firmò delibere per scuole, mercati, acquedotti. Si alzava prima degli uomini, parlava con voce ferma. Le dissero che era «troppo donna per comandare». Non si difese. Continuò a lavorare. Fu messa da parte. Troppo giovane, troppo lucida.
Maria Concetta Cacciola trovò il coraggio di ribellarsi. Nata a Taurianova, nel Reggino, in una famiglia di ‘ndrangheta, voleva salvare i figli. Parlò con i magistrati, denunciò riti, soprusi, violenze. Lo Stato non la protesse e la donna morì ingerendo dell’acido muriatico, schiacciata dalla solitudine. Lasciò parole dure e amare, potenti ma inascoltate. Spesso, le calabresi che hanno scritto la storia non hanno lasciato libri. Ne rimangono delle tracce, tuttavia: nei campi, nei corridoi delle scuole, nei municipi. Nei tribunali, nelle cucine, nelle famiglie. Sono donne che hanno faticato oltre ogni immaginazione e tenuto su una terra che le ha lasciate indietro.
Ancora oggi, i numeri raccontano un’ingiustizia pesante. In Calabria, soltanto una donna su tre ha un lavoro. Il tasso di occupazione femminile è fermo al 33,9 per cento. Il divario con gli uomini è superiore agli 11 punti. Le donne studiano più degli uomini. Sono la maggioranza, sia tra gli immatricolati all’università che tra i laureati. Ma questo non basta. All’Università della Calabria, l’80 per cento del personale tecnico-amministrativo femminile è laureato, contro il 59 per cento degli uomini. Eppure, nelle posizioni apicali, sono gli uomini a prevalere. Nella pubblica amministrazione, appena il 45 per cento degli incarichi dirigenziali è affidato a donne. Nel privato, le manager calabresi sono 46 su 202, secondo i dati più freschi. Nella carenza generale di servizi e di asili, che più di qualche sedicente progressista vorrebbe convertire in case di riposo, le madri con figli piccoli abbandonano il lavoro o rinunciano a cercarlo. Il part-time è spesso imposto. La precarietà e lo sfruttamento restano la regola: a scapito delle donne abbondano i contratti abusati o capestro, senza scrupoli e controlli. In molti casi, li firmano persone che non hanno l’appoggio della famiglia, crescono i figli senza aiuti e sprofondano nella povertà.
Nel frattempo, le violenze non si fermano. In Calabria, negli ultimi due anni, 13 donne sono state uccise da uomini che dicevano di amarle. In gran parte in ambito familiare. Le misure di protezione arrivano tardi. I centri antiviolenza sono pochi. Il sostegno psicologico è frammentario. E in molte continuano a vivere nel terrore. Il romanzo “Un’alba nuova” non offre soluzioni. Ma scava e fa male, poiché ricorda che le donne, in questa terra a sud del Sud, hanno sempre pagato il prezzo più alto: il silenzio, la rinuncia, la solitudine, la morte. La politica continua a inseguire. Promette, scrive piani, annuncia fondi. Ma non guarda in faccia le madri che chiedono un nido, le lavoratrici che con la gravidanza perdono l’impiego, le laureate che restano fuori dai concorsi. Mancano un’idea precisa e un impegno strutturale. E le scelte coraggiose sono un’eccezione. Oggi, mentre Gabriella Lax racconta Alba e il pubblico applaude, là fuori c’è chi torna a casa con una cartella piena di titoli e nessun contratto. C’è chi stira all’alba per 600 euro al mese, chi cresce più figli senza sostegno, chi ha denunciato ed è sempre perseguitata.
Ogni nuova alba, in Calabria, continua a sorgere sulle spalle di una donna stanca. Non è giunto il momento di chiedere scusa e di porre la questione femminile quale priorità?