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Difesa o diritti? La Calabria davanti al bivio dei fondi europei

È pacifico che la difesa dei territori non si faccia soltanto con gli eserciti. Occorrono soprattutto le cure, le strade, le comunità e la dignità, quindi il lavoro, l’assistenza sociale e il sostegn…

Pubblicato il: 18/07/2025 – 9:05
di Emiliano Morrone
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Difesa o diritti? La Calabria davanti al bivio dei fondi europei

È passata alla chetichella una riforma troppo tecnica, secondo lo stampo di Bruxelles. L’Unione europea ha appena cambiato le politiche di coesione, atte a ridurre i divari tra regioni ricche e povere. La modifica riguarda anche la Calabria e potrebbe finanche stravolgere lo scenario amministrativo, ma se ne parla poco o niente. La novità è contenuta nella cosiddetta mid-term review della programmazione 2021-2027. Per la prima volta, viene data la possibilità alle Regioni europee di destinare fino al 15 per cento dei fondi strutturali europei a progetti con finalità strategica e militare: i cosiddetti «dual use», cioè opere o infrastrutture dalla duplice funzione, sia civile che difensiva. L’esempio può essere un hub ferroviario, che serve ai passeggeri come al trasporto militare, oppure un centro per la cybersicurezza che protegge servizi pubblici e concorre assieme alla sicurezza nazionale.
Sulla carta, la scelta è volontaria: le Regioni non sono obbligate a seguire questa strada. Tuttavia, quelle che accettano di reindirizzare una parte dei fondi ottengono dei vantaggi immediati: copertura europea al 100 per cento, dunque senza cofinanziamento statale, tempi di spesa più lunghi e maggiore flessibilità.
È ovvio che gli incentivi possano allettare, soprattutto laddove i fondi europei non sempre riescono a essere spesi per intero o nei tempi stabiliti. Ed è proprio su questo punto che bisogna riflettere, nel senso che il congegno della riforma spinge verso i progetti dual use.
In Calabria, ciò può tradursi in una scelta da quasi mezzo miliardo di euro. Difatti, su un totale di 2,82 miliardi di euro assegnati alla Regione per il periodo 2021-2027 tra Fesr e Fse+, circa 420 milioni potrebbero essere diretti verso progetti con finalità militare o strategica. Sarebbero risorse sottratte, per capirci, alla sanità, alle scuole, ai trasporti locali, alla digitalizzazione delle imprese, alla rigenerazione urbana, alla lotta contro lo spopolamento. Nessuno ha ancora deciso qualcosa, ma la possibilità è concreta. A questo punto si pone un paradosso che va spiegato e visto criticamente. Per finanziare il riarmo e le politiche di difesa, si può sforare il tetto del deficit pubblico; oggi fino a +1,5 per cento del Pil, grazie alle cosiddette «clausole di fuga» europee. Non è invece ammesso lo sforamento per rilanciare la sanità pubblica, assumere nuovi medici, riaprire reparti o presìdi ospedalieri chiusi negli anni passati. In Calabria, dal 2010 commissariata dal governo per il rientro dai disavanzi sanitari, la tutela della salute è ancora bloccata da rigidissimi vincoli di bilancio, imposti per rispettare l’apposito Piano.
Nel 2001, con la modifica dell’articolo 120 della Costituzione, è stato previsto il potere dello Stato di commissariare le Regioni in materia sanitaria, in caso di scostamenti dai bilanci o di insufficienti livelli essenziali di assistenza. L’obiettivo formale è tutelare diritti primari. Nella sostanza, però, quella riforma ha aperto la strada a una lunga stagione di contenimento della spesa sanitaria, soprattutto nel Sud, dove i servizi erano già insufficienti. I Piani di rientro sono nel tempo diventati strumenti tecnici al servizio di una stabilità finanziaria nazionale sempre più condizionata dall’esigenza di mantenere i conti in ordine per non mettere a rischio l’euro. Con l’introduzione del Fiscal Compact, entrato in vigore nel 2013, si è affermato il principio del pareggio di bilancio quale obbligo costituzionale. Ma il Piano di rientro della Calabria era partito prima ancora che il trattato venisse ratificato. In un certo senso, l’Italia aveva anticipato l’austerità in ambito sanitario, disponendo norme e procedure per ridurre drasticamente la spesa, in nome di una visione a senso unico imposta nel tempo.
Secondo la narrazione dominante, cioè, i soli problemi della sanità calabrese sarebbero stati lo spreco, l’inefficienza e l’inadeguatezza gestionale. Da qui la chiusura di ospedali montani, la soppressione dei Punti nascita sotto le 500 nascite annue, la contrazione del personale e la paralisi degli investimenti, cioè misure legittimate da criteri numerici, linee guida ministeriali e un’idea ricorrente: in Calabria si sono bruciati troppi soldi pubblici, sicché bisogna stringere i cordoni della borsa, chiudere i rubinetti e avviare una gestione spartana, frugale, teutonica. L’idea però, non tiene conto di un fatto ovvio: le Regioni in cui si spende di più, come la Lombardia, hanno avuto – e continuano ad avere – livelli di spreco ben più elevati, proprio perché il loro bilancio sanitario è molto più grande. Nel 2024, il bilancio sanitario lombardo si è attestato sui 22 miliardi di euro. È evidente che, in valore assoluto, le inefficienze possano essere maggiori dove si gestiscono più risorse. Tuttavia, il racconto resta sempre lo stesso: in Calabria si spreca e in Lombardia si eccelle. Così, chi oggi denuncia che «la sanità in Calabria è un bancomat» rischia, forse senza volerlo, di rafforzare proprio quella narrazione che ha giustificato i tagli, le chiusure e la conseguente rinuncia al diritto alla cura nei territori più interni. Nel frattempo, la modifica della politica di coesione confligge con i Trattati europei. L’articolo 174 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è chiarissimo: la coesione serve a «ridurre le disparità tra i livelli di sviluppo delle varie regioni» e ad aiutare «le regioni più svantaggiate, tra cui le zone rurali, le zone colpite da transizione industriale e le regioni con gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici». Sanità, istruzione, infrastrutture sociali e ambiente sono le priorità della coesione. La difesa resta invece fuori. Lo spostamento, anche solo del 15 per cento, delle risorse verso obiettivi militari costituisce, in questo senso, una violazione sostanziale dell’orientamento dei fondi. Per questo motivo, è di dubbia rispondenza al diritto europeo.
Ma la vicenda non si ferma qui. Si decide come usare i fondi di oggi e si prepara il bilancio europeo di domani. Il nuovo Quadro finanziario pluriennale 2028-2034, sul quale la Commissione e il Parlamento europeo stanno discutendo, potrebbe segnare un’altra svolta. Secondo la proposta in ponte, si passerebbe da una gestione regionale dei fondi a una gestione centralizzata a livello nazionale, sul modello del Pnrr. I fondi verrebbero programmati attraverso «piani partenariali» tra Stati e Commissione, con un ruolo secondario delle Regioni. Anche se il Commissario europeo per la Politica di coesione, Raffaele Fitto, afferma di voler tutelare il coinvolgimento territoriale, le Regioni come la Calabria rischiano di perdere la possibilità di decidere come investire risorse fondamentali per lo sviluppo. A quel punto, che cosa resterà della coesione? Se oggi le Regioni possono scegliere, ma vengono incentivate a destinare risorse alla difesa, e se domani potrebbero non avere questa facoltà, chi garantirà che la spesa venga ancora finalizzata alla giustizia territoriale? Chi difenderà il diritto alla sanità, in una regione in cui non si riesce ad assumere personale, ma nella quale si potrebbero finanziare hub logistici strategici con fondi europei nati per ridurre la povertà? Ancora, chi difenderà la Calabria, se la Regione non potrà più decidere per sé? Chi difenderà i suoi ospedali, i suoi territori interni, i suoi bambini, i suoi anziani, se i fondi europei saranno assorbiti da priorità decise altrove, in nome di esigenze strategiche che non riguardano la vita quotidiana delle persone?
Bisogna a tornare a parlare di coesione, senza rinvii e riserve. Quale possibilità ha un bambino dell’interno calabrese di avere una scuola vicino casa, un anziano di trovare un medico a chilometro zero o una donna incinta di partorire in sicurezza senza dover percorrere un centinaio di chilometri? È pacifico che la difesa dei territori non si faccia soltanto con gli eserciti. Occorrono soprattutto le cure, le strade, le comunità e la dignità, quindi il lavoro, l’assistenza sociale e il sostegno dei più deboli. Così è, anche se non pare. Nell’era dei consumi, della distrazione, del rumore del silenzio. (redazione@corrierecal.it)

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