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Serafina Battaglia e il turismo giudiziario a Catanzaro

La prima persona a testimoniare contro la mafia fu una donna di Palermo, Serafina Battaglia. Chi ha curiosità di conoscerla la trova in alcuni frammenti su Yuotube. Nata a Godrano nell’hinterland di…

Pubblicato il: 21/07/2025 – 9:58
di Bruno Gemelli
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Serafina Battaglia e il turismo giudiziario a Catanzaro

La prima persona a testimoniare contro la mafia fu una donna di Palermo, Serafina Battaglia. Chi ha curiosità di conoscerla la trova in alcuni frammenti su Yuotube. Nata a Godrano nell’hinterland di Palermo Serafina morì all’età di 85 anni, “povera e paccia”, però nel suo letto. Ma non era pazza. La mafia per vendicarsi, prima la isolò e poi la denigrò. Gli unici a difenderla pubblicamente furono il magistrato Cesare Terranova e il giornalista Mario Francese; entrambi uccisi dalla mafia.
Serafina Battaglia aveva sposato un mafioso di rilievo, tale Stefano Leale; e lei stessa era vissuta in un’ambiente ad altissima densità mafiosa. Quando cambia pagina e vita? Quando la mafia uccide, oltre a suo marito, soprattutto suo figlio, Salvatore Leale. Là diventa una testimone di giustizia, la prima, in assoluto, in Italia; la prima persona donna a testimoniare contro Cosa nostra.
Questa è la premessa: il 9 aprile 1960 a Godrano fu ucciso suo marito Stefano Leale, commerciante e mafioso; egli era stato da poco tempo espulso da Cosa nostra. A seguito di questo evento Serafina incoraggiò il figlio Salvatore a vendicare il padre. Il figlio tentò di uccidere i due boss di Alcamo, Filippo e Vincenzo Rimi, ma l’attentato fallì e fu ucciso a sua volta. Durante il processo per l’omicidio del figlio, Serafina decise di testimoniare contro il sistema mafioso, collaborando con il giudice istruttore Cesare Terranova; a differenza degli altri testimoni, chiusi nell’omertà, durante l’interrogatorio raccontò come si era svolto l’omicidio, per il quale erano imputati Salvatore Maggio, Francesco Miceli e Paolo Barbaccia.
Ma il vero antefatto fu un altro. Il 30 giugno 1963 nella borgata agricola chiamata Ciaculli, alla periferia di Palermo, un’Alfa Romeo Giulietta imbottita di esplosivo saltò in aria procurando una strage in cui persero la vita sette militari tra carabinieri e soldati.
Una mattanza passata alla storia come “La strage di Ciaculli”. Una delle più sanguinose stragi pensata ed eseguita dalla mafia palermitana. Una strage che concluse la prima guerra di mafia siciliana nel dopo guerra.
“La solita telefonata”, commentò l’appuntato al centralino della stazione dei Carabinieri di Roccella, periferia di Palermo, porgendo il messaggio sulla scrivania del tenente Mario Malausa. L’ufficiale prese il foglietto e diventò subito pensieroso. Sapeva che Villa Serena di Ciaculli non era un posto qualunque. Vi abitava Totò Greco; la segnalazione era quindi di massimo interesse. Il giovane ufficiale ordinò subito di mandare una pattuglia a piantonare l’automobile sospetta, raccomandando: “Che nessuno la tocchi e nessuno si avvicini !”. La Prefettura e la Questura del capoluogo siciliano si mobilitarono subito dando ordini precisi. Sul posto si recarono uomini della Polizia, dei Carabinieri e anche gli artificieri dell’Esercito.
L’esca provocò la strage. Quale fu la risposta dello Stato di fronte tanta violenza criminale? In Sicilia sbarcano migliaia di Carabinieri e l’isola venne rastrellata. Come era già successo anni prima durante la caccia al bandito Salvatore Giuliano. L’anno successivo, nel 1964, a seguito della strage di Ciaculli, fu costituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia che, negli anni successivi, si estenderà alle altre mafie con poteri giudiziari e sanzionatori mai esercitati dal Parlamento italiano.
La fase istruttoria durò a lungo. Il processo, per decisione della Cassazione, fu trasferito da Palermo a Catanzaro per “legittima suspicione”. E fu il primo grande processo contro la mafia siciliana. Che a quel tempo era la madre di tutte le mafie. Il capoluogo calabrese, quale unica sede regionale di Corte d’Appello, era abituata ad ospitare processi importanti e di livello nazionale. Già nel 1912 si tenne a Catanzaro il processo a carico dell’avvocato palermitano Paolo Paternostro, imputato per un delitto d’onore. Un altro processo rilevante fu, nel decennio successivo, quello per la strage di Piazza Fontana.
Il processo iniziò a Catanzaro lunedì 23 ottobre 1967. L’aula bunker venne creata all’interno della scuola elementare “Aldisio” tra le proteste dei genitori e degli insegnanti. Anni dopo, per il processo di piazza Fontana, sarà creata un’apposita aula bunker all’interno del complesso del carcere minorile regionale. Che è tutt’ora in funzione. Fu allestito un sistema di sicurezza molto robusto. Furono impegnati 600 uomini tra Carabinieri e Polizia di Stato. Nonostante la presenza in città della Legione regionale dell’Arma furono richiesti rinforzi a Messina, Chieti, Napoli e Bari.
A presiedere la Corte d’Assise fu chiamato Pasquale Carnovale, a latere il giudice Gaetano Colosimo, e poi i giudici popolari. Pubblico ministero, Bruno Sgromo, che aveva svolto il medesimo compito durante il caso Silipo. Gli imputati presenti furono racchiusi in una grande gabbia (dodici metri per cinque) costruita con i tubi Innocenti. Il gabbione fu diviso in due sezioni dove spiccavano rispettivamente i capi-banda Pietro Torretta, con gli occhiali affumicati ed elegante doppiopetto grigio, e Angelo La Barbera, catturato a Milano nel 1963, dopo essere rimasto ferito dai sicari di una cosca rivale. Sarà ucciso a coltellate nel carcere di Perugia il 1978. Gli imputati alla sbarra furono complessivamente 152 di cui 112 in stato di arresto a dimostrazione della scia di guerra tra bande mafiose fatta di decine di assassinii, estorsioni, attentati, culminati con la strage di Ciaculli, ma poi proseguiti con altre escalation.
Numeroso e qualificato il parterre degli avvocati. Si ricordano i nomi degli avvocati Titta Madia, Di Benedetto, Aldo e Mario Casalinuovo, Giglio, Bellavista, De Marsico, De Martino, Dominijanni, Ruvolo, Ambrosini, Marino, Li Muti, Marazzita, Giurato, Mazzuca, Domenico e Mario Pittelli, Seta, Alfredo e Nicola Cantafora, Mormino, Corigliano, Pugliese, Pio Marini e Carlo di Martino. Questi due ultimi avvocati del foro di Roma difesero don Saro Mancino che, secondo il giornalista Mario Rosolino, era il trade union con i trafficanti di droga nel quadrilatero Usa-Marsiglia-Tripoli-Palermo. Per la cronaca bisogna aggiungere che il direttore del carcere di Catanzaro era un palermitano, Giuseppe Costantino. Sicché i detenuti poterono sentirsi a casa loro nella vecchia prigione del San Giovanni, oggi complesso monumentale restituito alle attività culturali della città.
Catanzaro, abituata all’intensa attività giudiziaria, visse con distacco quell’evento, nutrendosi, però, di un boom turistico enorme proveniente dalla presenza in città di centinaia di “addetti ai lavori” tra imputati, parenti degli imputati, testimoni, parti civili, giornalisti, avvocati, ufficiali e sottoufficiali delle forze dell’ordine, periti, studenti in giurisprudenza e, persino, curiosi in cerca di emozioni. Un turismo giudiziario in grande spolvero che diede lavoro ai locali pubblici, sempre pieni di ospiti e viaggiatori. Un indotto ristoratore sul commercio locale.
Le cronache del tempo sono ricchissime di spunti. L’arcaicità della cultura mafiosa confliggeva, ma sino a un certo punto, con l’eleganza gangsteristica di molti imputati.
Il Grande Albergo Moderno, un hotel a cinque stelle ante litteram (oggi sede della Bnl), divenne il quartiere generale palese ed occulto di tante categorie sociali. Di Cosa Nostra, della stampa nazionale e dei servizi segreti. Già, perché ci furono osservatori della Cia e della Fbi per controllare gli emissari di gente come Luky Luciano e Frank Coppola. Quest’ultimo depose a Catanzaro nella seduta dell’8 marzo 1968, personaggio inquietante della malavita americana e boss riconosciuto di Cosa Nostra. Si stava girando un film e nessuno se ne accorse. Un docufilm che, volendo, si può rivedere per la disponibilità dei giornali del tempo.
Il presidente della Corte accolse subito la proposta del Pm di unificare i processi (ma non le gabbie) di La Barbera e Torretta. Il processo si concluse sabato 21 dicembre 1968. Durò oltre un anno. Sicché, a quel tempo, Catanzaro divenne un crocevia della problematica mafiosa, con una sovrabbondanza di presenze quantomeno discutibili. Presenze silenziose e imperscrutabili. Non si vedevano coppole storte ma vestiti di lusso sì.
Alla fine, la Camera di consiglio della Corte d’Assise di Catanzaro, dopo 36 ore di esame e discussione, emise il verdetto nei confronti dei 113 mafiosi delle cosche palermitane. Le maggiori condanne riguardarono Pietro Torretta (27 anni), Angelo La Barbera (22 anni), Salvatore Gnoffo e Tommaso Buscetta (14 anni). In oltre un anno di attività processuale si tennero 172 udienze, durante le quali furono sentiti 249 testi. Gli anni di carcere comminati furono trecento contro i mille chiesti dal Pm Sgromo. Ma i figli delle vittime della strage di Ciaculli non seppero mai chi uccise i loro papà. Scrisse a quel tempo Nicola Volpes del “Giornale di Sicilia”: «Hanno pagato il conto alla giustizia solo coloro che hanno avuto il morto in casa o dietro l’uscio». Insomma, si processò per la prima volta Cosa Nostra ma la strage di Ciaculli rimase ai margini e non fu trovato nessun colpevole.

Serafina Battaglia e il turismo giudiziario a Catanzaro

La protagonista

Tra i tanti personaggi che popolarono quel processo si staccò per effetto scenico e intensità drammaturgica la figura di Serafina Battaglia. Una rappresentazione di tragedia greca. La si può vedere e ascoltare in un frammento di Rai Storia (Res Gestae Anni ’60), in cui accusa con la voce, con le mani, con la mimica, persino con gli occhi che fa roteare in un’azione coordinata con il resto del corpo. Fu la prima donna in Italia, in assoluto, ad accusare pubblicamente e ripetutamente nelle aule giudiziarie di Perugia e Catanzaro la mafia. Senza avvocato, senza soldi, messa all’indice in Sicilia, guardata con sospetto altrove, girò i tribunali di Catanzaro, Perugia, Bari e Lecce per testimoniare nei diversi processi di mafia che si tennero lontani dall’isola. L’unico appoggio lo ebbe dalla nipote Giovanna Guglielmini. I pochi aiuti li ricevette dal giornalista Mario Francese e dal giudice Cesare Terranova, entrambi uccisi dalla mafia. Furono gli unici a capire la portata epocale del pentimento antimafioso di una persona che si poneva di traverso alla mafia contro ogni abitudine e convenzione. Serafina Battaglia fu la prima persona a infrangere il muro dell’omertà. E lo fece non tanto e non solo per riscattare la morte del suo compagno, quanto per vendicare l’assassinio del figlio Salvatore. Una spinta mossa dal turbamento causato dal sangue versato dal figlio. La donna depose indicando i nomi degli assassini, dei mandanti e degli esecutori. Insomma, divenne una testimone implacabile in moltissimi processi. Morì a Palermo il 9 agosto 2004 all’età di 85 anni.
La donna, che non aveva nemmeno un avvocato depose il 6 novembre 1967.
Ma nella seduta del 29 marzo 1967 davanti al presidente Carnovale si consumò la scena madre. Serafina Battaglia si stese per terra, prona davanti alla Corte. Raccontando: «Le sciagure che colpirono e distrussero la mia famiglia ebbero origine nel legame stabilitosi con la famiglia Corrado. Nel 1956, infatti, mio marito acquistò case e terreni in territorio di Villafrati, in contrada Serra, proprio vicino alla proprietà dei Corrado. Per questa ragione tra la mia famiglia e la famiglia si instaurarono rapporti di amicizia». E giù a narrare la storia mafiosa dei Corrado. Il professor Alfredo De Marsico, uno dei più grandi avvocati italiani del tempo, dopo aver ascoltato la deposizione di Serafina la definì «un’enciclopedia ambulante, l’epicentro sismico, la storiografa della mafia». Implacabile. Martellante. Affrontò i faccia a faccia con i nemici giurati spavaldamente. A stenti trattenne l’emozione che la pervase, mai un attimo di esitazione dal deviare il suo percorso mentale, il suo obiettivo finale. Mettere con le spalle al muro il gotha della mafia siciliana. La donna listata a lutto nel confronto con Giovanni Russo gli dice: «Lei non mi conosce? Signor Presidente, lo giuro davanti a Dio, lo giuro davanti a questo sangue: Giovanni Russo mente!». Poi rivolta a Russo: «Non ricorda che lei è venuto a cercarmi perché don Turiddu era scappato?». E Russo di rincalzo: «Ma come fa lei a inventare tutte queste cose?». E la Battaglia sempre più decisa: «Lei sa tutto e non può parlare, glielo hanno impedito; io invece ho vissuto tutti i vostri movimenti e lei lo sa!».
La teste Battaglia affrontò tante prove perché si dovette confrontare con quasi tutti gli imputati. Ma non cedette mai di un millimetro. Sempre all’attacco. Con una lucidità e una fibra veramente notevole, come raccontano gli atti processuali e le cronache del tempo. Particolarmente drammatico risultò il confronto con Vincenzo e Filippo Rimi, ossia quegli imputati che a Perugia proprio per la sua implacabile accusa, assieme a Rocco Semilia, furono condannati alla pena dell’ergastolo, non più tardi di venti giorni dall’udienza di Catanzaro.
Dalla gabbia gli imputati gridarono ripetutamente a Serafina Battaglia: “Sei una pazza!”. E lei, rivolgendosi, a Torretta: «A Vossia tocca l’inferno!». È fatalista quando dice: «Io dirò sempre la verità tanto lo so che non c’è due senza tre [alludendo alla morte del compagno e del figlio]. la mia ‘spirazione’ è il cimitero». Mescola un buon italiano con qualche espressione dialettale. Dietro quella maschera di disperazione emerge la fierezza e, anche, la bellezza antica.
La strategia degli imputati fu di farla passare per una pazza isterica. Vestita di nero dalla testa ai piedi, il volto sempre coperto, svelandosi ogni tanto quando qualche affermazione dei suoi contro-accusatori le sembrò eccesiva. Come quando disse a Leonardo Leale: «Tu non puoi ammettere queste cose, altrimenti rinnegheresti il tuo spirito mafioso». Suo marito era mafioso. E lei non lo negò mai. Anzi. Nella lunga deposizione del 1° marzo 1968 spiegò anche le gerarchie della nomenclatura mafiosa. Era la prima volta che accadeva che la mafia veniva denudata didascalicamente.

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