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«Ci sono tanti modi di andar via dalla Calabria…»

«Torniamo in Calabria, recuperiamo quello che è ancora possibile. Questa regione chiede custodia, cura, dignità»

Pubblicato il: 18/08/2025 – 16:43
di Vito Teti
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«Ci sono tanti modi di andar via dalla Calabria…»

Un bel post di Donatella Di Cesare, studiosa e intellettuale che stimo moltissimo, che ama profondamente la Calabria, dove ritorna di frequente, non poteva passare senza un mio “commento” di condivisione. Ho commentato sul suo profilo in maniera distesa, ma anche a flusso. Ne viene fuori un “dialogo” occasionale e non pensato che propongo anche ai miei lettori.

Donatella Di Cesare: «Ci sono tanti modi di andar via dalla Calabria. Anche chi resta può assentarsi, ritirarsi, cedere alla rinuncia. E pensare che comunque comandano “loro”, che saranno “loro” a decidere. L’abbandono ha molte forme: la rassegnazione, il fatalismo, l’inerzia. È facile crogiolarsi nel senso di impotenza che pervade tutti. Ma anche questa è una scelta – la più deleteria – e se ne vedono purtroppo i frutti avvelenati. In queste ore difficili per la regione più tormentata, vessata e stigmatizzata, che sembra avviarsi verso una crisi irreversibile, devono essere i calabresi in prima persona a farsi protagonisti di una svolta. Perché senza una comunità politica, che si costruisce dal basso, non può esserci un futuro. Torniamo in Calabria, recuperiamo quello che è ancora possibile. Questa regione chiede custodia, cura, dignità».

Vito Teti: «Hai ragione, Donatella. Torniamo in Calabria. Per primi quelli che sono andati via, o sono fuggiti, anche restando in Calabria. Dove vivono rassegnati, silenti, apatici, adagiati, complici, spesso al servizio dei potenti. Mi permetto di ricordare che con il termine categoria “restanza” ho cercato di dire che l’attaccamento alla propria terra, sia che si resti sia che si parti, diventa retorica o slogan se quella terra non la curiamo, non la cambiamo, non la rivoluzioniamo. Restare ha senso se modifichiamo le antiche logiche di potere, di classe, di genere e si si vuole ri-generare in maniera nuova la comunità. I paesi non solo vengono abbandonati da chi li “abita”, ma non sono più conosciuti, parlati, ascoltati. Per cambiare bisognerebbe, nessuno lo sa meglio di te, conoscere bene la Calabria, girarla, ascoltarla, parlarla, raccontarla con sobrietà e realismo e, invece, le conoscenze della Calabria, non solo della “politica”, ma anche di tante élites intellettuali, sono ferme agli anno Ottanta, alla retorica del buon passato, al mito (senza fondamento). E invece il passato andrebbe conosciuto, rivalutato, riconsiderato, riscattato per le sue tante potenzialità inespresse e poi, tentando un difficile dialogo tra generazioni in proposte di mutamento radicale, dalla parte degli ultimi (e invece abbiamo dimenticato che esistono le classi e tutti vengono cancellati in una generica e granitica “identità calabrese”, mentre noi siamo tante identità mobili, tante storie, tante lotte, tante sconfitte, tanti saperi. Ho fatto un “giro” nella Locride e nell’area grecanica – questa volta con sguardo più prolungato e più attento e ho avuto anche il piacere d’incontrarti e rivedere amici e compagni di antica data e di recente conoscenza, ho incontrato giovani, ragazze impegnate, anziane donne che custodiscono memorie, organizzatori di Festival e iniziative culturali di qualità (forse bisognerebbe ragionare sull’importanza di essere attivi e presenti anche in inverno quando i paesi restano soli, tristi e desolati) – e ho visto situazioni disperate e drammatiche e insieme tante attività e iniziative di chi si è accorti che il futuro è già adesso e che bisogna intervenire qui ed ora. Con persuasione, coraggio, fantasie e con obiettivi anche minimi. Ho visto le Calabrie delle associazioni, del fare, dell’accoglienza, dei giovani e pi ho visto le tante “iniziative” di chi vuole e deve apparire e riceve danaro pubblico, mentre per la meravigliosa Tragùdia di un grandissimo regista di teatro come Alessandro Serra, dedicata a un’eccezionale figura come Salvino Nucera, poeta e anima del nondo grecanico, che ha tradotto il testo in lingua greca di Calabria, rappresentata (eravamo in tanti, tu, io e cento e cento altri), nello scenario fiabesco di Gallicianò, le istituzioni pubbliche non hanno trovato nemmeno una location e speso un Euro. Tornate, torniamo, quelli che siamo andati via e poi siamo tornati, quelli sospesi, a “mezza parete” che vanno e vengono, è rivendichiamo il diritto di migrare e di restare. Ma per restare i giovani, che non tollerano più le clientele di vario genere e fuggono, hanno bisogno, certo, di un nuovo racconto, di nuove rappresentazioni, ma di realtà dove ci siano il diritto alla salute, all’istruzione, dove funzionino gli uffici, siano praticabili le strade, si creino nuove opportunità lavorative (i giovani conoscono i linguaggi e i saperi del tempo presente), si alimentino la fiducia e la speranza. Usciamo dalla sterile “contrapposizione” tra rimasti e partiti (siamo tutte schegge di un’esplosione di un Mondo), non è necessario vivere sempre in Calabria per prendersene cura, per sostenere e proporre iniziative in controtendenza. Tutti devono prendere atto (certo senza fare prediche sul: “devi restare”, “perché non parti) che questa volta la Calabria e il Sud rischiano non solo l’espulsione di massa, la desertificazione, l’eutanasia dei luoghi (e molti ci vogliono convincere che bisogna accompagnare con cura i paesi alla morte, come dice il Pnnr-aree interne) e non servono più le “attese”, i falsi mutamenti, i piccoli “trucchi”, le menzogne, le autoesaltazioni che subito diventano autosvilimento, le dichiarazioni generiche, gli slogan a buon mercato; non serve più dare la colpa sempre agli altri, ri-scrivere mille volte il passato, operazione nobile, ma sterile quando il passato non parla al presente e non viene proiettato avanti e non all’indietro (Ingold). Abbiamo bisogno non di retro-utopie, di nastalgismi languidi, di rimpianti sterile, na di piccole utopie quotidiane (come dice Zoja), di grandi Utopie (abbiamo dove attingere e più di altri), di buone pratiche, di buoni esempi, ognuno come sa e come può. L’identità dell’essere è utile soltanto se accompagnata da “un’identità del fare”, da progetti e azioni che si inventano giorno per giorno, se ha un fondamento etico e civile. Diversamente, nonostante stiano nascendo tanti “fiori” e mille voci colorate per rigenerare, quelli che sono rimasti non avranno più un paese dove restare (perché sarà vuoto, ridotto a macerie) e quelli che sono partiti non avranno più un paese dove tornare. Lo scrivono in tanti e non solo io, che oscillo, da buon calabrese, tra qui e altrove, pessimismo e ottimismo, disperazione e speranza (come insegnavano Gioacchino da Fiore, Campanella, Alvaro, ma anche gli emigranti, le donne che occupavano le terre…). Avremmo bisogno di reti, collegamenti, scambi, progetti condivisi, “ri-gener-Azione”, buone pratiche. Poteri fare un lungo elenco di cose che non vanno, di cose che vanno, di cose che andrebbero fatte, di “memorie” da cancellare e “memorie” da trasformare in risorse per nuovi cammini), ma non è questa la sede e, solo per la stima e l’affetto che ho nei tuoi confronti, mi sono permesso di rubarti tanto spazio. Avremo modo di parlarne, purtroppo i tempi per invertire la tendenza al declino e alla sparizione (a volte all’autodistruzione) sono lunghi, perché arrivano da lontano e adesso incrociano problemi globali, che, a volte, fanno pensare alla Fine. Ci vuole tanta fatica, la mattina mettersi a fare qualcosa, pensando all’etnocidio-genocidio, sotto i nostri occhi, di Gaza, si fa grande fatica anche a fare una passeggiata dopo aver visto che a decidere le sorti del mondo sono due “criminali” come Trump e Putin. Che fare? Provare, finché è possibile, a migliorare, a cambiare, a dare un senso ai luoghi che abitiamo (anche con la mente) e amiamo. Con pessimismo (spero immotivato), con lo scenario “politico” che si profila al nostro orizzonte, con questo leghismo-sovranismo “de noiantri”, con questa “sinistra”, che ha smarrito anche il senso della realtà, della storia migliore di una Calabria combattiva e dignitosa, con questa “sinistra” che litiga, mentre si stanno svolgendo le elezioni, su chi candidare, con questo correre alla poltrona, all’incarico, da parte di chi, da quarant’anni, non lascia spazio alle giovani generazioni e non riesce a pensare al loro futuro, per il momento, vedo davvero nero e tempi lunghi (ammesso che si faccia in tempo) per fare davvero di questa terra, se non un Eden, almeno un luogo dove si può vivere, ricco di bellezze e anche di persone meravigliose, che la politica allontana e che, per ragioni che dobbiamo capire, dalla “politica” si allontanano. Ci sarà qualcuno, in Calabria, ma anche in Italia, che ricordi che fare politica significa fare il bene comune, occuparsi delle persone, degli ultimi, dei luoghi, delle strade, della salute, della scuola, della cultura? Se sì, io ci sono, come credo, in maniera diversa, tu e mille e mille altri, che restano, partono, tornano, arrivano (purtroppo ormai sempre più pochi) che pensano che non tutto sia perduto, che non “tutto è accaduto” (per dirla con Alvaro) e che bisogni recuperare “quello che ancora è possibile” per questa regione che chiede custodia, dignità”. Grazie e un abbraccio».

Donatella Di Cesare: «Proprio così caro Vito, concordo con le tue riflessioni. Occorre essere consapevoli del rischio che questa volta corre la Calabria, un rischio senza precedenti. Politica vuol dire occuparsi della polis e del bene comune. La depoliticizzazione è il male di questo tempo, soprattutto nel Sud. Fra ritorno, guardare la Calabria con altri occhi, tentare di curarla e custodirla, nonostante tutto, è un compito arduo. Ma è necessario. E tu lo sai meglio di chiunque. Un abbraccio».

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