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gaza chiama calabria

Sumud e restanza, quando il radicamento diventa un atto politico e culturale

«Cosa unisce Gaza alla Calabria? Perché gli asini dei contadini calabresi di una volta ci ricordano quelli che oggi vengono uccisi e catturati dai soldati israeliani?»

Pubblicato il: 05/09/2025 – 10:53
di Vito Teti
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Sumud e restanza, quando il radicamento diventa un atto politico e culturale

Spopolamento dei paesi delle aree interne come “genocidio”, praticato con “cura”, in maniera morbida e non cruenta? Gaza chiama il Sud e la Calabria? Restanza come Sumud?
Quest’estate, non ho fatto, per vari motivi, un giorno di mare o di vacanza (ma, forse, è vacanza abitare in un paese interno e collinare della Calabria), ma sono riuscito a fare qualche “viaggio di ritorno” in molti luoghi storici dell’abbandono calabrese e di altre regioni del Sud per parlare di spopolamento, “restanza”, resistenza, rigenerazione. Sono stato anche impegnato nella presentazione del bellissimo e necessario libro “Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza” (Fazi, 2025), dei mie giovani amici studiosi e scrittori Antonino Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti.
Il dolore nel vedere, in versione “estiva”, paesi che hanno perso migliaia e migliaia di abitanti negli ultimi anni, si confondeva con la disperazione, mia e degli amici di viaggio, per il genocidio di Gaza.
La Calabria e la Palestina.
«Cosa unisce Gaza alla Calabria, due aree vicine del Mediterraneo?
Perché gli asini dei contadini calabresi di una volta ci ricordano quelli che oggi vengono uccisi e catturati dai soldati israeliani?
Perché la bambina che continuerà a mangiare il pane bevendo il sangue del padre appena morto ci ricorda la sacralità e la simbologia del pane che è vita nelle nostre tradizioni alimentari e culturali?
E perché lo spopolamento e lo svuotamento del Sud, avvenuti in maniera lenta, nei decenni, ci fanno pensare a un’etnocidio morbido?
Cosa fare? Come resistere? Come restare con fatica, forza, desiderio di ribaltare lo status quo, di contrastare il neoliberismo guerrafondaio che distrugge popoli, città, paesi?».

Un giorno Antonio Bocchinfuso impegnato, con gli altri due curatori del libro, impegnato in una capillare promozione-presentazione del libro, specialmente al Sud, mi ha scritto qualche giorno fa (mese di luglio):
«C’è un termine arabo, presente anche nelle nostre poesie, Sumud, che noi di solito traduciamo con resistenza e resilienza, caparbietà, fermezza o perseveranza, ma nessuna di queste traduzioni ne esaurisce il significato. Indica un atteggiamento tipico del popolo palestinese, che da decenni subisce qualsiasi sopruso e inventa sempre nuove strategie per resistere, sopportare, restare radicato. Presentando il libro in Salento ed in Calabria abbiamo azzardato che una delle tante possibili ed insufficienti accezioni con cui tradurlo potrebbe proprio essere restanza. Appena ti abbiamo nominato e parlato di restanza il pubblico ha reagito con entusiasmo. Sono commosso dal fatto che anche i paesini della Calabria possano aiutarci a capire la resistenza palestinese».
Spopolamento come genocidio morbido e nella lunga durata? E allora Sumud come resistenza/restanza.
Gli abitanti delle isole del Pacifico, gli indios dell’Amazzonia, le popolazioni dell’Ucraina, il popolo di Gaza, gli abitanti dei paesi che si spopolano, gli “ultimi” delle periferie urbane e delle favelas non sono quelli che restano e resistono alla globalizzazione, alle invasioni, ai tentativi di espulsione e cancellazione, ai genocidi e agli etnocidi, praticati quotidianamente nel mondo?
Adesso un ulteriore sostegno a questa ipotesi di Antonio, Leonardo e mia di restanza come Sumud, ci arriva dall’amico antropologo Pietro Clemente, tra l’altro uno dei più attenti studiosi dei paesi del Sud e della Sardegna, un protagonista della ricerca etnografica e della storia dell’antropologia italiana. Per presentare il “Centro in periferia” da lui scritto e curato su “Dialoghi Mediterranei”, rivista diretta da Antonino Cusimano, scrive a proposito di alcuni saggi sulla “restanza”:
“Per me il successo di questa parola è un successo della antropologia (di tradizione italiana) che spesso si caratterizza per terminologie poco amichevoli (etico/emico ad es., o de-essenzializzare e simili). Quindi per me viva (W) la restanza. Si può scrivere anche su un muro come si faceva da giovani militanti”. Ma il fatto che sia una parola seminale e anche una parola riflessiva e suggeritrice o suggestiva, lo dicono anche i pensieri che ci ho fatto su leggendo il tris di articoli.

  1. Non è la restanza una possibile e forse buona traduzione dell’intraducibile (si dice) SUMUD? Leggo che questo termine arabo diventato ‘etchetta’ della flottiglia per Gaza, viene dal verbo “ṣamada: il senso si avvicina alla sfera di significato legata a “resistere”, “restare saldi”, “non cedere”, ma anche “salvare”. Il termine sumud entra nel linguaggio politico e culturale palestinese dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 quando inizia a essere utilizzato per esprimere una scelta culturale e politica: la determinazione a rimanere nella propria terra nonostante occupazione e pressioni economiche”. C’è parentela credo.
  2. Restare, permanere, permanenza sembrano indicare stati non dinamici , invece restanza ha un carattere azionale, forse è proprio il sostantivo che manca al verbo restare
  3. Nella sua capacità riflessiva e seminale , la restanza mi ha spinto a pormi problema, ecco, io sono nato a Nuoro, figlio di un padre il cui padre era pugliese e la madre invece sarda ‘pellitta’, un padre che poi si è sposato con mia madre nata in Basilicata e vissuta a Portici, ho vissuto in Sardegna i primi 32 anni della vita, gli ulteriori 50 invece a Siena (e dintorni. Perché mi considero sardo? Non lo so bene nemmeno io, ma può essere che in senso esteso la nozione di restanza possa essermi d’aiuto, ‘resto’ sardo, la mia potrebbe essere una restanza in parte conscia e in parte no di una identità prescelta . Forse esagero ma questa parola mi ha spinto a questi pensieri”. (Pietro Clemente).
    Certo quanto accade oggi in Palestina è terribile, non lascia respiro e provoca in tutti una sorta di perdita di senso e di angoscia insopportabile. Ma davvero quanto avviene oggi in Palestina è qualcosa di totalmente “impensabile” e mai “accaduto”. E il genocidio degli ebrei da parte dei nazisti tedeschi? E quello degli Armeni da parte dei Turchi?
    Forse bisogna guardare in una prospettiva di lunga durata, in un territorio grande quanto il pianeta, e pensare che tutto questo orrore è cominciato, in queste forme, con la conquista dell’America. Milioni e milioni di nativi e di locali furono sterminati, cacciati dalle loro terre, ridotti a schiavitù dai nostri antenati “civili europei”. La civiltà occidentale (America ed Europa), nel periodo che per molti coincide con l’Antropocene, nasce attraverso l’eccidio e l’etnocidio di popolazioni pacifiche e indifese. Nasce, la nostra “civiltà occidentale”, con un capitalismo di rapina, che oggi è diventato neoliberismo, sistematica distruzione di popoli, culture, luoghi. A questo tentativo dell’Occidente di controllare e governare il mondo vanno legati anche colonialismo, la schiavitù dei popoli africani, “trasportati” brutalmente in America per fare nascere la più grande potenza del Mondo (almeno fino a ieri). (Coniglio il bellissimo “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow, che riscrive la lunga storia del Sapiens).
    A questa vocazione-necessità, brutalità distruttiva, dei dominatori occidentali vanno ricondotti, pure con le tante differenze, anche i grandi fenomeni migratori, anche l’esodo biblico di milioni si contadini meridionali, italiani, europei (che ha comportato anche eccidi, distruzioni, devastazione, lacrime e sangue).
    Per questo “restare” nella propria terra, nei luoghi che abitiamo e amiamo, è (come migrare) un diritto locale e universale da affermare e rivendicare. Comunque.
    Per questo forse Gaza è tutti noi. Gaza chiama la Calabria. E le resistenze di tutti i popoli sono un affare del tutto “nostro”. Per questo con Antonio, Mario e Leonardo continueremo a scrivere di Calabria-Palestina, ad interrogarci, di Sumud-Restanza, di asini ed olive, di pane e poesia nell’universo post-contadino (dove la terra e la Terra continuano a “chiamare”) del Mediterraneo.

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