Antonella Aricò: «Vi racconto mio fratello Gianni e gli “anarchici della Baracca”»
Dal trauma al racconto pubblico: la sorella di uno dei cinque giovani calabresi morti nel 1970 sull’autostrada del Sole, ci restituisce una vicenda ancora piena di ombre e di verità negate

COSENZA C’è una collanina di perle, oggi custodita come un frammento d’anima, che racconta più di mille verbali d’archivio. È il regalo che Gianni Aricò fece a sua sorella Antonella, di ritorno da uno dei suoi viaggi. Un gesto d’amore semplice, quasi infantile. Ma è rimasto l’unico segno fisico – insieme ai ricordi – di una vita interrotta troppo presto, su un’autostrada buia, sotto un carico di pomodori e silenzi.
Era la notte del 26 settembre 1970. Cinque giovani tra i 18 e i 26 anni – Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Gianni Aricò e Anneliese Borth – partivano dalla Calabria su una Mini Minor gialla. Direzione Roma, documenti in mano, idee chiare in testa. Volevano incontrare gli attivisti di Umanità Nova, l’avvocato Eduardo Di Giovanni, e portare il frutto delle loro indagini autonome su ciò che stava accadendo nel Paese: la strategia della tensione, la strage di Gioia Tauro, l’eversione nera che covava sotto traccia.
Non ci arrivarono mai. L’auto si schiantò tra Ferentino e Frosinone contro un camion fermo, senza luci. Tre morirono sul colpo. Gianni il giorno dopo. Anneliese venti giorni più tardi. Nessuno ha mai spiegato con chiarezza cos’è accaduto quella notte. Nessuno ha mai ritrovato i documenti che portavano con loro. Ma soprattutto, nessuno ha mai risposto a una domanda che ancora oggi pesa come una colpa collettiva: fu davvero un incidente?
Quei ragazzi erano conosciuti come “gli anarchici della Baracca”, dal nome della villa liberty di Reggio Calabria che avevano trasformato in un centro politico e culturale attivo e vitale. Luigi Lo Celso, cosentino, si era unito al viaggio, con ogni probabilità, per partecipare alla contestazione organizzata a Roma contro l’arrivo del presidente statunitense Richard Nixon.

In un Sud profondamente attraversato da tensioni sociali, criminalità organizzata e complicità istituzionali, quei ragazzi provarono a costruire un’alternativa: fatta di letture, assemblee, idee, musica, coraggio.
Cinquantacinque anni dopo, la giustizia ufficiale ha ancora la bocca cucita. Ma la memoria – quella vera – continua a camminare. Nelle scuole, nei teatri, nelle piazze. Grazie a progetti come Quattro pezzi facili meno una o Evviva Maria. E grazie soprattutto a chi non ha mai smesso di ricordare e di interrogare.
Antonella Aricò, sorella di Gianni, ha taciuto per quarant’anni. Poi qualcosa dentro si è rotto. Da allora non ha più smesso di raccontare. In questa intervista rilasciata al Corriere della Calabria, ci porta dentro il suo dolore, la sua determinazione, e la sua visione lucidissima su ciò che ancora oggi, di quella vicenda, rimane nascosto sotto la polvere degli archivi.
In questi 55 anni lei ha portato avanti con grande determinazione la memoria di Gianni, Anneliese e degli altri ragazzi. Cosa l’ha spinta nel tempo, a non arrendersi di fronte al silenzio delle istituzioni e all’archiviazione dell’inchiesta?
«Purtroppo ho avuto una reazione terribile agli eventi e questo mi ha portato a chiudere tutte le mie emozioni dentro per ben quaranta anni durante i quali non sono riuscita a parlare di quello che era successo né a nominare il nome di mio fratello. Ho tenuto tutto dentro senza consapevolizzare quello che mi stava succedendo. Solo dopo 40 anni, quando sono stata invitata ad andare a Roma a vedere lo spettacolo teatrale di Ulderico Pesce, è scoppiato qualcosa dentro di me. Ho scoperto, allora, di avere un dolore grandissimo dentro ed ho cominciato a piangere la morte di mio fratello, cosa che non avevo potuto fare per tutta una serie di cose successe dopo. Mio padre è morto dopo tre mesi dalla morte di Gianni ed ho dovuto affrontare difficoltà di tutti i generi visto che eravamo rimaste da sole mia madre ed io. Da 15 anni porto in giro la storia dei ragazzi e non solo. Nessuno può più fermare il mio desiderio di conoscere la verità sulla morte di mio fratello. E non mi fermerò. È solo per avere giustizia. È questa la mia unica certezza».
La notte dell’incidente e i giorni successivi sono ancora avvolti da troppe zone d’ombra. A suo avviso, quali sono gli elementi più inquietanti o mai chiariti che ancora oggi le impediscono di parlare di “incidente” in senso stretto?
«Sono tantissimi gli elementi che non mi fanno fermare. Uno dei tanti è che dovrebbe qualcuno spiegarmi perché dopo la morte di Gianni la mia famiglia ha subito intimidazione a non fare domande altrimenti avremmo pagato ancora e mia madre, allora, davanti alle minacce nei miei confronti, si è arresa. Io avevo 17 anni. Qualcuno dovrebbe spiegarmi come mai sul luogo dell’incidente è arrivata subito la polizia politica, prima della polizia stradale e dell’ambulanza. E poi tante cose che non tornano, per esempio il fatto che tutti sono partiti separatamente quel sabato pomeriggio e tutti dovevano tornare a casa quella sera. Non solo Gianni ed Anneliese, ma sicuramente anche Angelo e Franco. Non ho notizie di Luigi. Che cosa ha fatto cambiare loro idea? E potrei riempire decine di pagine di fatti importanti. Non ultimo il fatto che i nomi dei cinque ragazzi figurano in alcuni pannelli fatti a cura del ministero degli interni per i 30 anni della DIA negli elenchi delle vittime innocenti per mafia».
Negli ultimi anni, grazie a progetti teatrali e culturali come “Quattro pezzi facili meno una” di Francesco Aiello e Giovan Battista Picerno del Kollettivo Kontrora o “Evviva Maria” di Ulderico Pesce, questa storia è tornata a circolare tra le nuove generazioni. Secondo lei, cosa manca ancora nel discorso pubblico italiano sulla memoria di quegli anni e sul ruolo degli anarchici?
«Si sa pochissimo di quello che i ragazzi e tutta la generazione di quel periodo facevano veramente e volevano ottenere. Si sono fatte tante lotte e grazie a questo si sono ottenuti tanti diritti, alcuni adesso si stanno cominciando anche a cancellare. Conoscere la storia di quel periodo può essere una grande formazione affinché ogni ragazzo possa fare scelte consapevoli. È questo che manca, la conoscenza. Ho girato molto in questi anni un po’ in tutta Italia e mi sono resa conto che molti non conoscono la storia di quel periodo e ancora meno la storia dei cinque anarchici e non solo di loro. È sconosciuta la loro ideologia e quale era il mondo che sognavano. Kento ha scritto una canzone proprio sui ragazzi, a Roma anni addietro è stato fatta una serata con musica che raccontava la storia dei ragazzi e in particolar modo parlava di Anneliese. Le figlie di Pino Pinelli hanno portato in giro un docufilm sulla storia del padre. Gli spettacoli teatrali e altre manifestazioni sono occasioni importanti per poter parlare di loro. Di tutti coloro che hanno lottato perché venisse fuori la verità. Troppo poco comunque si è fatto. Per questo motivo noi siamo ancora qui a portare in giro le loro storie. Per far conoscere e non dimenticare».
Nei mesi scorsi, durante il Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo, il nome degli anarchici della Baracca è stato ricordato pubblicamente a Montecitorio, grazie all’intervento di una giovane studentessa, Virginia Fatima Bueti. Che significato ha avuto per lei questo gesto, dopo anni di silenzio istituzionale? È stato un punto di arrivo o un nuovo inizio?
«Mi sono molto emozionata davanti alla fermezza e sicurezza di Virginia. Mi è sembrato un sogno. Sono stata felice che delle ragazze, aiutate dalla loro insegnante di storia, si siano avvicinate a tematiche così importanti. Incontrerò presto tutto il gruppo che si è interessato a questa storia. Credo importante che i giovani riescano ad avere informazioni varie che diano loro la possibilità di fare scelte consapevoli nella loro vita e non scelte indotte. Questo può succedere soltanto con conoscenze e cultura. Per me è un nuovo inizio».
Se oggi potesse parlare con una giovane o un giovane che scopre per la prima volta la storia degli “anarchici della Baracca” quale messaggio sentirebbe di affidargli?
«Vorrei che tutti i giovani sapessero che ci sono state persone idealiste che hanno cercato di cambiare il mondo. Loro avevano obiettivi importanti e sono sempre andati avanti. Adesso se questo nostro mondo non ci piace è possibile fare qualcosa per cambiarlo. Come? Ognuno con la sua piccola responsabilità. Se ognuno di noi, giovani e non giovani, credesse che le cose possono cambiare e facesse nel suo piccolo qualcosa per cambiare, sicuramente tutti insieme potremmo ottenere, piano piano tante cose. È terribile adattarsi a quello che non ci sembra giusto pensando di non poter fare niente. Rischiamo di cadere in un qualunquismo che non ci porterà a nulla di buono. Se nel passato si sono ottenuti dei risultati, anche oggi è possibile farlo. Bisogna crederci, avere dei valori puliti, degli ideali grandi e soprattutto essere solidari tra noi tutti per superare i disagi. Cercare la verità e la giustizia, avere un piano di lavoro ed unirsi alle persone che vogliono costruirsi una coscienza libera. Non bisogna pensare che non si può fare nulla. È la sfiducia, la noia, la superficialità e il disinteresse per ciò che ci succede attorno che vanno sconfitti. Solo pensando di potercela fare è possibile migliorare questo mondo. E oggi ne abbiamo molto bisogno».
Che ricordo ha di Gianni come fratello, al di là del militante e dell’attivista? C’è un momento, un gesto o una parola che porta con sé ancora oggi?
«I ricordi di Gianni sono tantissimi e ancora oggi mi riscaldano il cuore perché ho avuto la fortuna di avere un rapporto bellissimo con lui da sempre e per sempre. Quando eravamo bambini dormivamo nella stessa camera e mia madre alla sera ci metteva a letto e poi andava a suonare il pianoforte aspettando il rientro di mio padre. Allora Gianni mi faceva i dispetti, linguacce, mi diceva che arrivavano i lupi per mangiarmi ed io piangevo finché non arrivava mia madre che rimproverava lui ed io ero felice, ma lui dopo continuava finché mia madre non si stufava e rimaneva in camera con noi fino all’ arrivo del nostro sonno. Crescendo quando andavamo a dormire è diventato un momento importante perché era il momento delle confidenze, dei racconti della giornata, momenti in cui ci raccontavamo quello che era successo, quello che avevamo fatto, in realtà ero più io che raccontavo tutto a Gianni, da quello che avevo fatto ai miei pensieri. Mai avuto un segreto con lui che mi ascoltava sempre con pazienza. Gianni era molto riservato e taciturno con me ma mi dava tranquillità. Poi un giorno mia madre ha deciso che doveva separarci e fare una camera per me. Ho sofferto tantissimo perché la sera non potevo raccontare tutte le mie cose e non potevo addormentarmi ascoltando quello che mi suggeriva di fare. Ho continuato per un breve periodo ad andare in camera sua di nascosto per raccontare le cose urgenti ma piano piano è finita. Ma lui comunque c’era sempre per me in qualunque momento avessi bisogno. Potrei raccontare ancora tantissime cose di noi due insieme della tenerezza, la complicità e la sensazione di protezione che mi ha dato fino alla fine anche tenendomi fuori da tutto ciò che pensava e faceva. È difficile da raccontare tutta una vita vissuta assieme. Il giorno che, tornato da uno dei suoi viaggi mi ha portato una collanina di perle, collanina che tengo gelosamente e che quando la indosso mi sembra una sua carezza. E negli ultimi mesi è entrata tra noi Anneliese, diventando meravigliosamente complice con me di tanti progetti. È stata la sorella che avevo sognato con cui ho condiviso il sogno, tra gli altri, di festeggiare insieme il compimento dei nostri 18 anni, visto che li compivamo con una distanza di solo 15 giorni. Abbiamo giocato ad arredare la loro casa dove non sono mai andati ad abitare e progettare una grande festa con tantissimi amici. Con lei tanti sogni. Sono grata a Francesco e a Giovan Battista che hanno pensato ad uno spettacolo che ha come riferimento importante Annelise perché di lei si è detto tanto e non sempre bene. Anneliese merita di essere ricordata per quello che è stata. Una giovane libertaria una persona libera, dolce, sicura e coraggiosa e sempre sorridente che ha scelto di restare accanto a Gianni fino alla fine. A me mancano molto tutti e due». (f.veltri@corrierecal.it)
Nella foto di copertina (gentilmente concessa da Antonella Aricò), Gianni Aricò.
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