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processo propaggine

Roma “città libera” fino al 2015, poi è nato il primo locale di ‘ndrangheta. «Decisione strategica senza pestare i piedi alle altre mafie»

La ricostruzione in aula da parte del pm Giovanni Musarò. «L’espansione come fenomeno di colonizzazione, non di clonazione»

Pubblicato il: 28/09/2025 – 6:56
di Giorgio Curcio
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Roma “città libera” fino al 2015, poi è nato il primo locale di ‘ndrangheta. «Decisione strategica senza pestare i piedi alle altre mafie»

ROMA Perché questo processo è così complesso? Perché cerca di «dimostrare la costituzione del primo locale di ‘ndrangheta nella città di Roma». Inizia così la requisitoria del pm della Procura di Roma, Giovanni Musarò, durante il processo “Propaggine” alle battute finali davanti ai giudici del Tribunale di Roma. E il pm cita un modo di dire ormai “storico”. «C’è una battuta famosa che gira in Calabria, lì ci ho lavorato tanti anni, ed è: “qual è la città più grande della Calabria? Roma” Qui, infatti, ci sono più di 200.000 calabresi, la stragrande maggioranza sono persone oneste, ce ne sono almeno un centinaio però, stando a quello che dice Antonio Carzo “una carovana”, stando a quello che dice Alvaro, nelle intercettazioni, di soggetti appartenenti o contigui a importanti famiglie di ‘ndrangheta che nella Capitale erano e sono dediti a tutta una serie di attività illecite, riciclaggio, intestazioni fittizie, stupefacenti, delitti in materia di armi, a volte estorsioni, ma che finora non si erano mai organizzati per costituire un vero e proprio locale di ‘ndrangheta».

I “locali” di ‘ndrangheta

Che cosa intendiamo per locale di ‘ndrangheta? «La ‘ndrangheta è un’organizzazione unitaria radicata nella provincia di Reggio Calabria, divisa nella provincia in tre grandi macroaree dette “Mandamenti”. A noi è quello tirrenico che ci interessa, quello che parte da dopo Villa San Giovanni e arriva fino alla fine della provincia di Reggio Calabria. Nel mandamento tirrenico ci sono una serie di comuni che sono importanti in questo processo, i comuni nei quali storicamente opera la famiglia Alvaro, e vedremo sulla base di sentenze definitive, Sinopoli, Cosoleto, San Procopio, Delianuova. E c’è anche il famoso comune di Santa Cristina d’Aspromonte, cioè il comune di origine di Giacomo Madafferi», precisa in aula il pm.
«Se parliamo di sentenze definitive, è stata accertata con sentenza definitiva, l’esistenza del locale di ‘ndrangheta nel Lazio, il locale di Anzio e Nettuno (…) e poi sono stati accertati l’esistenza di locali di ‘ndrangheta in moltissimi comuni, almeno 15, della Lombardia, del Piemonte, della Liguria, della Valle d’Aosta, dell’Emilia-Romagna, del Trentino. Sono stati accertati locali di ‘ndrangheta anche fuori dai confini nazionali, Germania, Svizzera, in Canada e in Australia, soprattutto in Australia ci sono molti soggetti originari di Sinopoli e Cosoleto, e ne troviamo traccia nelle intercettazioni», spiega ancora Musarò.

«Il fenomeno della colonizzazione»

Quindi, cos’è un locale di ‘ndrangheta? Si chiede in aula Musarò. «Il locale di ‘ndrangheta è il tipico modello di espansione territoriale dell”ndrangheta, risponde a un fenomeno che non di clonazione cioè, non sono calabresi che vanno al Nord e fanno i mafiosi lì, no. Il locale di ‘ndrangheta fuori dalla Calabria, lo scrive il gup in una sentenza definitiva, risponde a un fenomeno di colonizzazione, cioè, di espansione su un altro territorio. E perché avviene questo? Ce lo spiega bene un collaboratore che abbiamo sentito in questo processo, Paolo Iannò, braccio destro di Pasquale Condello, uno dei capi di ‘ndrangheta, e Iannò in questo processo ci dice che “se lo ‘ndranghetista si sposta dalla Calabria per un soggiorno obbligato, per lavoro, per fare il militare all’epoca, per fare un affare e si radica su un altro territorio, lui ha nel suo DNA, fa parte della sua natura, se non ci sono altre organizzazioni di ‘ndrangheta su quel territorio, ci pensa lui a formare un locale di ‘ndrangheta e pensa solo all’affare”, perché ama dire: “Qua ci sono io, comando io, chi viene sa che sono io il riferimento”».

«Fino al 2015 solo Anzio e Nettuno nel Lazio»

Durante la requisitoria il pm della Procura di Roma spiega che, finora, nel Lazio, era stata accertata la costituzione solo del locale di Anzio e Nettuno, «fino al 2015 non risultava esistente un locale nella Capitale e allora la prima domanda che ci si deve porre a nostro avviso è questa: ma se la città più grande della Calabria è Roma, e se è nella natura e nel DNA dello ‘ndranghetista formare un locale, perché prima del 2015 non esisteva a Roma?». E che non esistesse un locale di ‘ndrangheta a Roma «l’abbiamo accertato tramite le intercettazioni ma anche grazie ad Antonino Belnome, altro collaboratore importante che abbiamo portato in questo processo».  

La figura di Belnome

Belnome, infatti, non è un soggetto qualunque. Capo locale di Giussano in Lombardia, originario come famiglia di Guardavalle, è considerato l’autore ed esecutore materiale di un omicidio eccellente, quello di Carmelo Novella nel 2008 a San Vittore Olona. Novella, infatti, era il “capo della Lombardia”, struttura che coordinava tutti i locali lombardi, «proviene da una famiglia di ‘ndrangheta importante, sia perché è sostenuto da personaggi come i Gallace e dal boss Vincenzo, sia perché si rende responsabile di tutta una serie di omicidi e ha una grande conoscenza delle regole della ‘ndrangheta», rimarca il pm Musarò.
E che cosa gli viene chiesto in uno dei primi interrogatori che facemmo nel 2015, proprio sui locali nel Lazio? «Lui ci dice: “per quello che mi risulta, Roma è una città libera”, cioè, “non è una delle città in cui c’è un locale di ‘ndrangheta”. E perché? Belnome dice “c’è un motivo”, perché nei grossi centri ci sono tutte le mafie, tutte le mafie vengono a fare affari, fra cui la ‘ndrangheta. Il business più grosso a Roma ce l’hanno gli ‘ndranghetisti che riciclano i soldi provento dei sequestri di persona degli anni ’70 e del narcotraffico, che non possono essere sempre interrati, che vanno necessariamente investiti” e ancora, “a Roma non c’era il locale di ‘ndrangheta, come non c’era un’articolazione di Cosa Nostra, come non c’è un’articolazione della Camorra, perché a Roma ci sono tutte le mafie”».

«Fu una decisione strategica, senza pestare i piedi alle altre mafie»

«La decisione, che è della “provincia”, quella di autorizzare la costituzione del locale di Roma, fu strategica per l’intera ‘ndrangheta, perché avrebbe potuto avere riflessi e ricadute nei rapporti con le altre organizzazioni, il locale di Roma è qualcosa di diverso, è un qualcosa di più, è strategico (…) un’autorizzazione a costituire il locale di Roma, se non fosse stata presa con le dovute attenzioni, adottando le dovute contromisure, avrebbe rischiato di minare gli equilibri fra tutte le mafie romane, questo equilibrio la ‘ndrangheta, lo trova nel 2015, perché trova una soluzione di compromesso», spiega in aula il pm. «La soluzione di compromesso risiede nel fatto che la ragione sociale del locale di Roma non è la sopraffazione con violenza e minaccia, non è l’imposizione del pizzo, non è un controllo militare del territorio, che è la cifra di ogni locale di ‘ndrangheta in Calabria, ma la ragione sociale del locale di Roma è rappresentata soprattutto dagli investimenti in attività commerciali che sono intestate a compiacenti prestanome e spiega perché questo consente alla ‘ndrangheta di non “pestare i piedi” alle altre mafie storiche, ma consente anche, finalmente, di ottenere quello che era giusto, cioè, la costituzione del locale di ‘ndrangheta a Roma». (g.curcio@corrierecal.it)

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