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I dati che contano davvero: la Calabria e la crisi del carrello. Perciò lo chef Fitarau ha successo

Con i suoi piatti “essenziali”, apparentemente raffinati ma costruiti su ingredienti poveri e lavorazioni semplici, incarna la parabola della nuova cucina italiana

Pubblicato il: 12/10/2025 – 10:46
di Lucia Serino
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I dati che contano davvero: la Calabria e la crisi del carrello. Perciò lo chef Fitarau ha successo

Archiviato il voto, seppelliti in fretta i veleni elettorali, resta sul tavolo ciò che davvero pesa nella vita concreta delle persone: i numeri dell’ultima indagine Istat sulla spesa delle famiglie, che raccontano un’Italia impoverita, ferita dall’inflazione, e una Calabria che continua a restare fanalino di coda. Numeri che interrogano la politica ben più delle alchimie da campagna elettorale.
Nel Paese, una famiglia su tre ha ridotto la spesa alimentare per necessità. Il 31,1% ha dichiarato di aver abbassato la quantità o la qualità del cibo acquistato. E non perché spenda meno in assoluto — la media resta sui 2.755 euro al mese — ma perché con la stessa cifra di due anni fa si compra molto meno. I prezzi sono saliti del 18,5% rispetto al periodo pre-Covid, mentre la spesa è cresciuta solo del 7,6%.
È l’aritmetica dell’impoverimento: il carrello è mezzo vuoto, anche se si paga uguale.
In questo quadro già duro, il Sud e la Calabria si confermano territori dove il disagio si misura con più forza. La spesa media mensile delle famiglie calabresi si ferma a 2.075 euro, ultima in classifica insieme alla Puglia. Ma quel che più conta non è solo la cifra assoluta: in Calabria, il 28,2% di questa spesa è destinato ai soli beni alimentari. È un dato che racconta una realtà dove il cibo è ancora una priorità, non una libera scelta di consumo. Dove il bilancio familiare si concentra sulla sopravvivenza, non sulla qualità della vita.
Nel Nord, dove le famiglie spendono fino a 3.500 euro al mese, la quota destinata al cibo è molto più bassa: meno del 18% nel Nord-Est. Là pesano di più trasporti, cultura, ristorazione, benessere. È la fotografia di due Italie diverse: una che spende per vivere meglio, l’altra che spende per vivere e basta. Come ha scritto Federico Fubini su Repubblica, non è un caso se in tutta Italia si moltiplicano proteste e tensioni: le persone che scendono in strada lo fanno perché si sono impoverite. Non è rabbia ideologica, è frustrazione sociale. Il malessere non è solo una percezione: è scritto nei bilanci familiari, nei tagli al cibo, nelle rinunce quotidiane. La politica ha il dovere di non ignorare questo allarme. I numeri Istat non sono un’appendice statistica, ma una priorità politica. Dietro ogni euro in meno nel carrello c’è una scelta che una famiglia è stata costretta a fare: rinunciare al pesce fresco, alla carne, alla frutta buona, talvolta persino al latte. Questo non è solo un problema di economia, è un problema di dignità. È vero che l’inflazione alimentare nel 2024 ha rallentato. Ma il rallentamento dei prezzi non si è tradotto in un ritorno alla normalità nei consumi. Le famiglie calabresi non comprano di più, né comprano meglio. Restano ferme, in equilibrio precario su un carrello mezzo vuoto. Mentre il divario tra Nord e Sud si allarga: 834 euro al mese separano le famiglie del Nord-Est da quelle del Mezzogiorno. Un abisso che non è più solo economico, ma culturale e civile. Chi governa, a ogni livello, dovrebbe partire da qui. Dalle famiglie che fanno la spesa al discount, che scelgono il pane confezionato invece di quello fresco, che comprano meno frutta perché costa troppo. Non bastano bonus, elemosine una tantum, promesse che evaporano con la campagna elettorale. Serve una strategia complessiva per affrontare la povertà alimentare, che è solo la punta dell’iceberg del disagio meridionale.
Archiviato il voto, è il tempo della responsabilità. Perché nessuna vittoria politica vale quanto un carrello pieno. E la dignità di poter scegliere cosa mettere a tavola.
In questo contesto il successo popolare dello chef Sebastiano Fitarau racconta molto più di quanto possa sembrare. Con i suoi piatti “essenziali”, apparentemente raffinati ma costruiti su ingredienti poveri e lavorazioni semplici, Fitarau incarna la parabola della nuova cucina italiana: un fine dining che rinuncia all’opulenza vera, e che si adatta all’impoverimento generale mascherando l’austerità con il design.
È la rappresentazione più plastica di un tempo in cui anche il lusso deve arrangiarsi, cercando di salvare la forma laddove la sostanza non può più permettersi di essere abbondante. Ma in questa illusione di eleganza sopravvive anche un messaggio positivo: se siamo diventati tutti un po’ più poveri, possiamo comunque scegliere di farlo con dignità. (redazione@corrierecal.it)

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