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Catanzaro: non è crisi, è smarrimento. Cosenza «spremuto» e senza succo

Aquilani traballa, ma il problema forse è più profondo. Lupi già stanchi e il club resta fermo (mentre i tifosi meritano applausi). Crotone, guardarsi allo specchio e non riconoscersi

Pubblicato il: 20/10/2025 – 10:54
di Francesco Veltri
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Catanzaro: non è crisi, è smarrimento. Cosenza «spremuto» e senza succo

In B il Catanzaro non riesce più a rialzarsi. La sconfitta casalinga contro il Padova mette Aquilani in bilico. Giornata amara anche per le calabresi di C, il Cosenza ha pareggiato in trasferta e il Crotone ha perso in casa. La nota positiva è che lassù in vetta la Salernitana ha perso contro il Catania, mantenendo invariato il distacco dei pitagorici, mentre i Lupi hanno rosicchiato un punticino.

Catanzaro: non è crisi, è smarrimento

Parlare di crisi è scontato. E allora lasciamola pure lì questa parola abusata, priva ormai del peso drammatico che dovrebbe evocare. No, il Catanzaro non è “in crisi”. Il Catanzaro è in deriva identitaria, che è molto più sottile, più vischiosa, e, soprattutto, più difficile da invertire. Perché non basta ritrovare la vittoria. Bisogna ritrovare sé stessi. La squadra ammirata nelle ultime due stagioni – elegante, feroce, consapevole – oggi pare solo una sbiadita diapositiva ingiallita dal tempo.
Lo specchio impietoso è quello del campo: idee annebbiate, nervi fragili, gambe pesanti e leadership evaporata. E non serve un archeologo per notare la differenza.
Sia chiaro: non manca la qualità. I nomi ci sono. Pigliacelli, Petriccione, Brighenti, Antonini, Iemmello non sono comparse, ma colonne. Eppure, quella che era un’orchestra ben diretta oggi suona come una cover band stonata. L’arrivo di Aquilani era un azzardo affascinante. Ma dopo mesi di lavoro, il saldo è povero. I numeri non mentono, ma non sempre dicono tutto. I due punti in meno rispetto allo scorso anno non devono illudere: il confronto più temibile non è con la classifica, ma con l’identità perduta. La sensazione? Che qualcosa si sia spezzato. Almeno per adesso il filo che univa ambizione e consapevolezza pare essersi ingarbugliato. Non è solo un problema tattico. È uno smarrimento collettivo, mentale e strutturale, che neanche le due settimane di lavoro per Padova sono riuscite ad arginare. Dopo la sconfitta di Monza, ci si attendeva una reazione. È arrivata invece una prestazione scialba contro un Padova tutt’altro che irresistibile.

Crema: in una notte di nebbia tecnica ed emotiva, si intravedono appena due luci. Pigliacelli, che continua a parare l’impossibile come se la porta fosse una causa personale. E Cissè, talento irruento ma autentico, capace di accensioni rare in un contesto che rischia di spegnerlo. Il resto? Poco o nulla da salvare. L’idea che questo sia il reale valore dell’organico fa tremare i polsi, ma è una domanda che va affrontata prima che sia il campionato stesso a rispondere.
Amarezza: la panchina di Aquilani scricchiola, ed è comprensibile. Parlava di svolta, e invece si è vista una regressione. Ma stavolta, più del tecnico, il peso dell’amarezza cade sulle spalle di capitan Iemmello. Il suo sfogo a inizio stagione – onesto, viscerale, perfino condivisibile – oggi suona come un triste presagio: «Ho 33 anni e mi sono stancato di rincorrere gli altri». Il problema è che ora sembra stanco anche di rincorrere sé stesso. Il rigore fallito è solo un simbolo. Il vuoto attorno a lui, quello sì, è il vero allarme.

Cissè in azione nella gara contro il Padova

Cosenza «spremuto» e senza succo

Se un punto è meglio di zero, allora il bicchiere sarà mezzo pieno. Ma se quel punto arriva dopo essersi fatti rimontare due gol dal Sorrento (che, con tutto il rispetto di questo mondo, non è il Real Madrid), e dopo una settimana passata a leccarsi le ferite per la sconfitta casalinga con l’Atalanta Under 23, allora è lecito chiedersi se il bicchiere, più che mezzo pieno, non sia mezzo rotto. La trasferta di Potenza avrebbe dovuto segnare un piccolo riscatto, un modo per ribadire – se non alla classifica, almeno a sé stessi – che questo Cosenza può ancora dire qualcosa in un campionato che già oggi sembra volerlo relegare a un ruolo da comprimario malinconico. Invece no. La squadra di Buscè ha lasciato due punti sul prato lucano e una scia di rimpianti difficile da ignorare.
Eppure, paradossalmente, non tutto è da buttare. Il Cosenza ha mostrato lampi di gioco, le vecchie interessanti sincronie, persino un certo orgoglio. Ma i problemi strutturali restano lì, come crepe nei muri di una casa costruita in fretta e senza chissà quanta voglia.
La rosa è corta, anzi cortissima. Chiaro ormai anche ai più ottimisti: il fiato è corto, le gambe pure, e l’assenza di ricambi degni di tale nome ha messo il gruppo alla frutta già a ottobre. Buscè lo ha detto senza troppi giri di parole: «Qualcuno è stato spremuto come un limone». Non c’è bisogno di un agronomo per capire cosa succede a un limone spremuto troppo: si secca. Ed è qui che la cronaca lascia spazio alla riflessione. Perché se la squadra può sbagliare – e ha sbagliato, soprattutto dietro, dove le ingenuità sono diventata croniche – chi avrebbe dovuto intervenire per evitare questo tracollo di energie?
Il mercato degli svincolati, oggi, assomiglia più a un banchetto fuori orario che a un’occasione, ma resta il fatto che non intervenire è già una scelta. E chi decide di non scegliere, spesso, finisce per subire.
Il paradosso è che, numeri alla mano, questo Cosenza ha dentro almeno una decina di giocatori da parte alta della classifica. Il problema è che il calcio, da solo, non si gioca con dieci-undici elementi buoni. Serve una mentalità, una programmazione, e soprattutto una struttura. Invece qui sembra di assistere sempre a un esperimento sociale più che a un progetto tecnico.

Crema: non ce ne vogliano Cimino (primo gol tra i professionisti) e Ricciardi (gol, traversa e assist), sempre generosi ed efficaci, ma la vera crema della giornata, ancora una volta, è tutta per i tifosi rossoblù. Quelli che, incuranti della categoria e della precarietà che li circonda, sono saliti a Potenza per far sentire che i Lupi hanno ancora una casa. Se il “Marulla” somiglia ormai a un teatro vuoto, in trasferta questo amore si trasforma in qualcosa che va ben oltre il tifo. È dedizione. È passione e identità reale. È una richiesta – neanche troppo velata – di rispetto.
Amarezza: «Manca la mentalità da serie C» ha detto Buscè dopo la partita di Potenza. Parole che, pur suonando come un’ammissione, somigliano più a un grido d’allarme. Non basta la tecnica. Non basta la buona volontà. Non basta nemmeno il cuore, se attorno tutto sembra improvvisato o umorale. E la colpa non è dei calciatori. Né dell’allenatore. Forse la domanda andrebbe girata altrove. Tipo: ma chi è che ha deciso che così andava bene?

I tifosi del Cosenza a Potenza

Crotone, guardarsi allo specchio e non riconoscersi

Guardarsi allo specchio e non riconoscersi: è questa, più che la sconfitta, la vera notizia uscita dallo Scida. Il Crotone che aveva incantato con geometrie e gol ora si scopre fragile, intermittente, quasi straniero a sé stesso. E se le sconfitte iniziano ad arrivare sempre dallo stesso indirizzo – casa propria – forse non è solo un problema di indirizzo.
La terza caduta interna in dieci giornate non è più archiviabile sotto la voce “episodi”. Se Benevento e Casertana avevano strappato i tre punti cavalcando l’imprevisto, la sconfitta contro il Monopoli fa più male perché immeritata sì, ma non inspiegabile. I segnali, in realtà, c’erano. Solo che quando vinci 3-0 due volte in fila, come contro Picerno e Foggia, ti illudi che il motore sia a posto. E invece, sotto il cofano, qualcosa scricchiola. Il Crotone visto sabato pomeriggio ha mostrato due facce. Una, quella iniziale, fatta di qualche occasione sprecata, volontà, idee a tratti. L’altra, quella del secondo tempo, tutta stanchezza, approssimazione e assenza di mordente. È lì che la partita è scivolata via: non per un errore, ma per mancanza di reazione. Il dato che preoccupa non è solo il blackout fisico, quanto quello emotivo. La squadra pitagorica sembrava priva di scintilla, come se la fatica avesse spento prima le gambe e poi la testa. E quando l’avversario ti aggredisce, ti blocca le linee di passaggio e ti obbliga a pensare in fretta, servono attributi prima ancora che schemi. In C, le partite non si vincono solo per superiorità tecnica. Si vincono perché ci credi un secondo in più. Perché chiami il raddoppio, vinci il contrasto sporco, spingi anche quando hai la lingua di fuori. Sabato scorso, questo non si è visto.

Crema: in un pomeriggio deludente, la lucidità più grande è arrivata a fine gara, dalla voce di chi dovrebbe – e può – tenere il timone saldo: Emilio Longo. Il tecnico non si è aggrappato al destino, non ha dato la colpa al vento né all’arbitro. Ha parlato di umiltà, concetto che aveva già tirato fuori alla vigilia. Perché è lì che si gioca la prossima partita: non sul campo, ma nella testa. Servirà rimettere da parte i riflettori e tornare alla sostanza. Quella che in Serie C vale più dei complimenti. Longo ha usato parole misurate, da leader. E ha indicato la via: imparare a vincere anche le gare sporche. Quelle senza ritmo, senza spazio, senza poesia.
Amarezza: l’amarezza, stavolta, è più sottile. Più infida. Non sta solo nei tre punti persi, ma nella sensazione che qualcosa si sia inceppato. La vetta si allontana, e con essa anche l’inerzia positiva di un progetto che sembrava in pieno decollo. I segnali vanno letti prima che si trasformino in zavorra. E poi c’è Gomez. A secco da due partite dopo un avvio di stagione scintillante. Nessun processo, ci mancherebbe: anche i bomber respirano. Ma se l’attacco rallenta, allora serve che gli altri reparti aumentino i giri. Finora è accaduto poco. (f.veltri@corrierecal.it)

Murano nella sfida di sabato scorso

Foto Us Catanzaro, Cosenza calcio e Fc Crotone

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