Da Sant’Agata di Esaro la mostra del maestro Salvatore Gallo: un messaggio di pace e di bellezza
La sua vocazione inizia da ragazzo quando sdraiato su un tronco immagina di scolpire quella scena che sta vivendo su una tavola di legno

SANT’AGATA D’ESARO Nonostante gli Almasri e i Netanyahu di turno e chi li sostiene, il bene ti sorprende sempre quando meno te lo aspetti. Ti coglie impreparato, perché sembra di essere immersi in un mondo violento, che non si fa scrupoli a calpestare l’umano che non rientra nei propri biechi interessi economici o di parte. Ti lascia senza parole, ma ti chiede di ascoltare, di vedere, di contemplare la bellezza che ne sgorga, la verità che hai di fronte. Avevano ragione i pensatori scolastici quando per la prima volta intuirono che bonum, verum et pulchrum convertuntur. Mi è capitata questa esperienza nei giorni scorsi, poco prima della partenza per l’Africa, ora da questo Continente immenso, sfruttato e dimenticato la rivedo. Penso allo sguardo sereno e profondo di Salvatore Gallo, da poco pensionato, artista per vocazione di Sant’Agata di Esaro, piccolo Borgo dell’entroterra calabrese, ferito da ciò che doveva rappresentare l’invaso più grande della Calabria: la diga dell’Esaro; sogno promesso e mai realizzato da oltre quarant’anni, fondi spesi per progettazioni varie iniziate nel 1979, acquisto di terreni, lavori iniziati nel 1986 e interrotti l’anno dopo. Credo di non sbagliare se dico che essa rappresenta una sorta di primato in negativo: la più grande opera incompiuta della Calabria. La comunità di Sant’Agata non si è mai arresa, formata da persone accoglienti e laboriose, continua a custodire una perla preziosa di cultura e gastronomia che è la più antica sagra della castagna iniziata nel 1971, giunta quest’anno alla cinquantunesima edizione. Durante lo svolgimento di quest’ultima, Salvatore ha deciso di realizzare una mostra delle sue opere. Mentre mi trovavo ospite della sua casa, attorno a un meraviglioso caminetto dove la moglie arrostiva un bel po’ di castagne, poco prima della mia partenza, gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia che meriterebbe ben altro spazio, magari raccontata in un libro da divulgare soprattutto nelle scuole.



I suoi genitori si sposarono subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, contadini entrambi, lui è il nono di ben 11 figli. Serba un ricordo bellissimo dei suoi genitori, del padre che parlava poco e lavorava tantissimo e della madre che durante tutti i giorni della sua esistenza non si è mai fermata un attimo. «Ho intenzione di scolpire la figura con ai piedi una targa che, oltre a ricordarne il nome, contiene una domanda: ma come hai fatto?».
La sua vocazione artistica inizia da ragazzo quando sdraiato su un tronco ricurvo a mo’ di amaca, immagina di scolpire quella scena che sta vivendo su una tavola di legno: «era come se la vedessi in un film che girava nella mia mente» – mi disse con uno sguardo carico di stupore – opera che realizzerà dopo circa vent’anni e che ha appeso sul suo caminetto. «Dopo qualche anno, appena quindicenne, chiesi a mio padre di riservarmi un tronco di albero alto più o meno un metro e trenta, non riuscivo a resistere a quella immagine che vedevo dentro quel pezzo di legno. Mio padre mi chiese: ma cosa ne devi fare? Mi serve, risposi io, senza specificarne il motivo. Lui acconsentì. Portammo il tronco nella legnaia e non vedendo l’ora di iniziare il lavoro sottrassi dai suoi attrezzi un grosso chiodo che serviva per le travi. A colpi di mazzetta e di lima riuscii ad appiattirne la punta e ricavarne una specie di scalpello. Dopo una paio di colpi di motosega e di ascia iniziai il lavoro di scalpello e lentamente venne fuori la figura di San Francesco di Paola. Dopo qualche giorno mio padre passò da lì e vedendo la statua rimase per un un po’ di tempo silente. Vedevo i suoi occhi lucidi e increduli rispetto a ciò che avevano davanti. Si volse verso di me e mi disse queste testuali parole: non me lo sarei mai immaginato che da quel pezzo di legno si potesse realizzare una statua di San Francesco».


Da quella sua prima opera, che raffigura il «più Santo dei calabresi e il più calabrese dei Santi», iniziò a scolpirne tante altre che non ha assolutamente intenzione di vendere, ma di lasciare in eredità alla sua comunità e alla nostra umanità. Una di queste rappresenta un mappamondo sorretto da due mani sul quale campeggia un cuore, quasi a voler dire che noi siamo il cuore del mondo e che il mondo è il nostro cuore. Sotto tale capolavoro, l’autore ha voluto incidere queste parole: «Il mondo, con le sue bellezze naturali, con le sue meravigliose creature, con le sue preziose acque…è nelle nostre mani. Che esso sia sempre più bello, più pulito, più giusto. Ognuno di noi mettiamoci il cuore». Queste opere sono esposte in questi giorni a Sant’Agata, in un’ala del chiostro dello splendido convento di San Francesco da Paola, nulla succede a caso. Il Santo, Patrono di tutti noi calabresi, sembra quasi voglia dirti grazie Salvatore per la tua straordinaria vocazione di artista del legno, queste tue opere incidono in coloro che le contemplano un messaggio di pace, di bellezza e di solidarietà con il mondo e con i fratelli che lo abitano. (redazione@corrierecal.it)
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