Petrolmafie, «l’equivoco» della ’ndrangheta unitaria e la spartizione dei lavori a Pizzo
La Procura chiede di rivalutare le due associazioni ritenute «distinte» dai giudici di primo grado. La vicenda del Centro parrocchiale «esemplificativa» della coesistenza tra clan

VIBO VALENTIA Lo definisce un «equivoco» da chiarire la Procura generale di Catanzaro nel processo d’appello di Petrolmafie, l’inchiesta che ha fatto luce sugli interessi della ‘ndrangheta vibonese nel settore degli idrocarburi. I magistrati contestano la sentenza di primo grado emessa dal tribunale di Vibo Valentia il 1° dicembre 2023, che ha portato alla condanna di 35 persone e all’assoluzione di 23. Nei giorni scorsi, si è conclusa la requisitoria con cui la Procura ha chiesto la condanna per 38 persone e la rideterminazione della pena per alcuni imputati.
L’accusa di associazione a delinquere
La Procura, nel trattare il quadro accusatorio generale, ha chiesto alla Corte di ridefinire anche la parte in cui viene discussa in sentenza l’associazione a delinquere contestata a dieci imputati, tra cui i fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico, condannati a 30 e 18 anni di carcere. La prima contestazione verte sulla decisione dei giudici di distinguere la famiglia ‘ndranghetista capeggiata dal boss Luigi Mancuso e la «sotto articolazione» che avrebbe cercato di infiltrarsi nell’economia legale. Si tratterebbe – scrivono in sentenza – di «due associazioni distinte, benché strettamente collegate». In pratica, la seconda sarebbe una «sorta di longa manus» dell’associazione capeggiata da Luigi Mancuso e comunque «assoggettata all’influenza della famiglia Mancuso» a cui poi sarebbe andata una parte dei profitti generati dalle attività illecite.
La ‘ndrangheta unitaria
La Procura ha quindi chiesto alla Corte di ridefinire l’unità delle associazioni, tornando dunque al concetto di «’ndrangheta unitaria», un fatto «notorio e acclarato» e considerandolo un «presupposto indispensabile» per valutare le singole posizioni degli imputati. A riprova di ciò, viene citata la vicenda che gira intorno all’estorsione avvenuta per quanto riguarda i lavori al nuovo centro parrocchiale di Pizzo Calabro, territorio descritto come luogo di coesistenza tra varie articolazioni della ‘ndrangheta: il clan Bonavota, Mancuso e Anello. L’accusa contesta agli imputati presunti atti estorsivi e di concorrenza sleale «volti al controllo o comunque al condizionamento dell’assegnazione e dell’esecuzione dei lavori». In particolare, dalle indagini sarebbe emerso un «accordo collusivo» per imporre la scelta delle ditte esterne. Gli inquirenti hanno ricostruito la spartizione dei lavori tra clan, «che hanno collaborato tra loro nell’ottica di un controllo totale e condiviso del territorio». Una vicenda da cui emerge uno «spaccato allarmante della sottoposizione dell’appalto al predominio mafioso» e che proverebbe la visione unitaria della ‘ndrangheta. (ma.ru.)
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